Soddisfatti, anzi molto soddisfatti, del proprio lavoro, gli italiani, anche per la possibilità di riuscire a conciliare tempo di vita e tempo di lavoro. Insoddisfatti, invece, delle retribuzioni e della possibilità di fare carriera. È quanto emerge dalla terza indagine Isfol sulla qualità del lavoro in Italia presentata in un convegno, “La qualità del lavoro. Evidenze nazionali e sovrannazionali”, organizzato dall’Isfol in collaborazione con Eurofound, la fondazione della Commissione europea che si occupa della rilevazione delle condizioni di lavoro dei cittadini europei.

L’indagine ha cadenza quadriennale e si inserisce all’interno di quelle svolte dall’Eurofound. C’è da dire che tali tipi di rilevazioni campionarie sono assai datate, nei paesi economicamente più sviluppati, se si pensa che la riflessione teorica sul tema nasce negli anni Sessanta del secolo scorso. Le prime attività furono avviate da sociologi, psicologi e teorici dell’organizzazione, i quali fecero ricorso a studi sulla motivazione umana, sui comportamenti di gruppo e sulle questioni connesse con l’analisi socio-tecnica. Secondo gli approcci tradizionali, basati cioè su una matrice ergonomica, il grado di autodeterminazione dei contenuti, dei tempi e delle modalità di esecuzione del lavoro venivano considerati come un parametro importante per la valutazione positiva della qualità del lavoro stesso.

Nel corso del tempo, i paradigmi teorici sono molto cambiati, facendo registrare un progressivo passaggio da un’accezione di qualità delle condizioni di lavoro a una basata sulla qualità del posto di lavoro, a una successiva di qualità del lavoro, per giungere all’accezione attuale di qualità della vita di lavoro, intesa in senso ampio, dove vengono messi maggiormente in risalto, in una definizione insieme teorica e operativa del concetto, sia gli aspetti più direttamente relazionali, sia quelli più marcatamente espressivi e progettuali, sia, infine, tutti gli aspetti di interconnessione con la qualità della vita al di fuori del lavoro.

Il passaggio, dunque, da una nozione, sia pure allargata, di condizione di lavoro a quella di qualità della vita di lavoro avviene soprattutto in Italia (con le teorizzazioni di Luciano Gallino e di Michele La Rosa) e in Europa, attraverso l’individuazione di diverse dimensioni e parametri ritenuti influenti su bisogni, motivazioni, aspettative e interessi dei lavoratori, definiti in termini più ampi che nel passato.

Nell’attuale dibattito sul tema della qualità del lavoro, allora, i nodi intorno ai quali vi è maggiore discussione riguardano: a) il rapporto tra la scelta di alcuni criteri oggettivi di misurazione della qualità del lavoro e altri criteri più soggettivi, legati cioè al vissuto e al significato che il lavoro assume per le persone; b) l’esigenza di non limitare il campo di osservazione ai luoghi di lavoro tradizionali, dove è più facile ma anche più scontato un approccio tradizionale, di tipo puramente ergonomico (sicurezza e salute nei luoghi di lavoro), ma di estendere l’osservazione anche a lavori finora meno osservati (e osservabili), come i lavori svolti in grandi imprese industriali, ma anche e soprattutto in grandi imprese di servizio, nelle pubbliche amministrazioni, nelle piccole e medie imprese, nelle organizzazioni non profit, nei sistemi di imprese-amministrazioni-territori in rete; c) trovare connessioni teoriche e coerenze empiriche tra la misurazione dei parametri più specifici alla qualità del lavoro, in senso stretto, e qualità della vita, in senso più ampio.

La metodologia, adottata dall’Isfol, ha tenuto conto di tutti questi apporti, cercando di operativizzare un concetto multidimensionale di qualità del lavoro (ripreso sostanzialmente dagli studi di Gallino e La Rosa) che considera le dimensioni mutuamente indipendenti tra di loro e riferibili a cinque aspetti: dimensione economica (retribuzione), ergonomica (qualità dell’ambiente di lavoro), della complessità (sviluppo delle competenze e problem-solving), dell’autonomia (autodeterminazione delle regole e della propria condotta lavorativa) e del controllo (sulle condizioni generali del proprio lavoro). L’indagine prende, dunque, in considerazione moltissimi aspetti quali: l’autodescrizione del lavoro svolto; le condizioni e l’organizzazione del lavoro; le competenze; la formazione on the job, sia formale che informale; i percorsi di carriera; le molestie e le discriminazioni; la salute e la sicurezza; la retribuzione e gli eventuali benefit; il work-life balance e i livelli di soddisfazione sul lavoro.

Volendo analizzare proprio quest’ultimo aspetto – i livelli di soddisfazione – dallo studio Isfol emerge che i lavoratori italiani sono sostanzialmente soddisfatti del proprio lavoro: il 20% si ritiene molto soddisfatto, il 67,8% si dichiara abbastanza soddisfatto, mentre l’11% esprime poca soddisfazione e l’1,7% totale insoddisfazione. Si discostano nettamente da questo quadro estremamente positivo la soddisfazione per le prospettive di miglioramento di carriera (58%) e la soddisfazione per la retribuzione (54,2%).

Gli aspetti relativi alla soddisfazione per il lavoro svolto fanno perlopiù riferimento alla sfera soggettiva, poiché basati sulle motivazioni e sulle aspirazioni delle persone, determinando, in buona misura, il benessere lavorativo generale. Dai dati Isfol risulta che 8 lavoratori su 10 dichiarano di sentirsi motivati a dare il meglio nonostante, per circa il 30% degli intervistati, il lavoro svolto si discosti dalle loro aspirazioni. In questo risultato positivo incidono soprattutto l’età (le classi di età più giovani, 15-29 anni, le quali sono verosimilmente appena entrate nel mercato del lavoro, hanno una probabilità più elevata di essere soddisfatte rispetto alla classe di età compresa tra i 45-54 anni e coloro che hanno più di 55 anni), la formazione on the job (piuttosto che quella tradizionale scolastica) e il genere (i livelli di soddisfazione sono maggiori per le donne rispetto agli uomini).

La retribuzione è un ulteriore fattore che accresce la soddisfazione di svolgere bene il proprio lavoro e sale, comprensibilmente, all’aumentare del reddito. In dettaglio, al livello delle occupazioni/professioni, essa aumenta al crescere della qualificazione professionale posseduta e del livello di specializzazione raggiunto, per cui i lavoratori maggiormente soddisfatti sono quelli delle professioni con elevati livelli di competenze (high skill) seguiti dai tecnici.

Altre correlazioni molto forti sono quelle legate all’adeguatezza della mansione svolta così come quella relativa ai percorsi di carriera, in quanto laddove vi sono più possibilità di avanzamento è dato rilevare maggiori livelli di soddisfazione. Infine, vale evidenziare un nesso, molto robusto, tra soddisfazione e sicurezza del lavoro (job security) per cui la prima decresce moltissimo quando il dipendente ha la percezione di poter perdere il proprio posto di lavoro. A dimostrazione di tale assunto, tra coloro che manifestano un’elevata percezione del rischio di perdere il lavoro vi sono i lavoratori atipici: i dipendenti a termine e, ancor più, i collaboratori, presentano un valore dell’indicatore pari, rispettivamente al 52,9% e 60,2%. Il rischio percepito, di perdere il lavoro, è anche correlato negativamente con la retribuzione: a livelli di reddito netto mensile bassi sono associate quote superiori alla media di persone che temono di perdere il lavoro nei 12 mesi successivi alla rilevazione. Circa 3 occupati su 10 che hanno una retribuzione mensile inferiore a 1.000 euro esprimono preoccupazioni sulla stabilità lavorativa; per i colleghi con retribuzioni più cospicue, la percezione di insicurezza lavorativa decresce sensibilmente, attestandosi intorno all’11% per coloro che guadagnano tra i 1.750 euro e i 2.250 euro al mese.

In definitiva, volendo essere sintetici, i lavoratori italiani, tranne quelli atipici, sono, dunque, tutti soddisfatti del proprio lavoro? Tale soddisfazione si riverbera positivamente anche sulle imprese che li hanno assunti, in termini di livelli di produttività elevati? A voler fare l’avvocato del diavolo, però, questo cospicuo grado di soddisfazione potrebbe non voler dire necessariamente che si è sempre molto contenti di svolgerlo quanto, piuttosto, specialmente in un periodo di forte crisi occupazionale, che ciò possa essere fortemente connesso alle difficoltà di trovare e mantenere un posto di lavoro.

Gli alti tassi di disoccupazione, le elevate quote di persone scoraggiate e di inattivi involontari, registrati soprattutto nell’ultimo biennio a causa della congiuntura economica, spingono sicuramente gli occupati a ritenersi soddisfatti di aver trovato un posto di lavoro e a non valutare in maniera più “oggettiva” la qualità dello stesso. In questi casi si potrebbe proprio sostenere, con ragione, che gli aspetti strumentali prevalgono nettamente su quelli immateriali.

In conclusione, considerare la qualità di un lavoro, e ancor più la qualità del proprio lavoro, ha in sé una fortissima componente di soggettività che può spiegare molto bene gli elevati valori fatti registrare dall’indagine e che scaturiscono, non poco, dal contesto economico attuale, dall’entusiasmo delle prime esperienze lavorative, dalle caratteristiche personali e anagrafiche, dallo status sociale conseguito, dalla formazione on the job, dalle qualifiche possedute e dalle retribuzioni ottenute, ma un aspetto altrettanto importante è quello di poter riuscire a conciliare tempo di lavoro e tempo di vita (work-life balance), aspirazioni professionali e autorealizzazione personale, sfera lavorativa e familiare, come si vedrà meglio in un prossimo approfondimento sul tema.