La settimana in cui ci troviamo si è aperta con una forte mobilitazione degli imprenditori. In tantissime città d’Italia, questa grande categoria – a cui quasi a stento si attribuisce la qualifica di lavoratori – è scesa in piazza per dimostrare come la regolazione, non solo la crisi, sta incidendo sui loro interessi, sulle loro condizioni di lavoro, insomma, sulla loro vita. Forse non siamo abituati a un binomio che include in sé “impresa” e “piazza”, “imprenditori” e “mobilitazione”; eppure i fatti parlano chiaro e sono la vera cartina di tornasole dello stato di benessere o malessere del mercato del lavoro italiano.
Da questo nascono le richieste contenute nel manifesto presentato lunedì da Rete Imprese Italia alla classe politica che si confronta in campagna elettorale. Le urgenze non sono affatto poche, basti pensare al solo fatto che a partire dal primo luglio è previsto un ulteriore innalzamento dell’aliquota Iva, con tutte le conseguenze depressive dei consumi che possono facilmente prevedersi. È sulla pressione fiscale che le imprese chiedono particolari attenzioni in chiave di riforma, essendo queste colpite da più parti dalle imposizioni di un sistema fiscale pesante e onnipresente per la persona dell’imprenditore. Egli si ritrova a esser tassato praticamente su ogni fronte, anche in quella parte di risorse economiche destinate a pagare la forza lavoro e che va a formare un cuneo fiscale tale da ridurre ancora di più la già bassa propensione ad assumere di questi tempi.
Tornando all’Iva, la proposta delle imprese è quella di destinare “il gettito derivante dal recupero delle risorse evase alla riduzione del carico fiscale”, cosa che non può non mettere d’accordo tutti, almeno in linea di principio. I problemi sul punto li pongono poi la matematica e il pareggio di bilancio, ma certo non può non essere considerato nell’equazione che esiste “una pressione fiscale di oltre il 56% per i contribuenti in regola”, come ha ricordato Carlo Sangalli a conclusione della manifestazione.
Questa percentuale non può essere nella fisiologia di un sistema fiscale sano e soprattutto equo, in quanto un carico così pronunciato rende inevitabilmente l’evasione qualcosa di strutturale, quasi fosse un elemento che a ragione alcuni – per disperazione – potrebbero giustificare come strumento di equità. Oggi moltissimi imprenditori potrebbero essere tentati da questa giustificazione, trovandosi di fronte alla tragica realtà per cui pagare le tasse equivale a chiudere.
E la chiusura delle imprese è un dato. Abbiamo spesso parlato dei dati sulla disoccupazione, specie giovanile; altri numeri rilevanti e necessariamente correlati sono stati mostrati proprio da Rete Imprese Italia e derivano da uno studio che compara la natalità-mortalità delle imprese nel 2011 e 2012. Sottraendo dal numero di iscrizioni annue al registro delle imprese quello delle cancellazioni, la somma si chiude in negativo sia nel settore dei servizi di mercato (-53.234), sia in quello dell’artigianato (-16.912).
Come sempre, vorrei che ci abituassimo a far parlare i numeri: e stavolta è abbastanza chiaro che le imprese hanno le loro ragioni e che non ci sarà crescita senza un fisco più giusto.