Secondo la rilevazione Istat di venerdì scorso, il tasso di disoccupazione a ottobre resta ai massimi, segnando lo stesso valore di settembre, attestandosi al 12,5%, il livello più alto sia dall’inizio delle serie storiche mensili (gennaio 2004), sia delle trimestrali (primo trimestre 1977). A ottobre il numero di occupati, 22 milioni 358 mila, resta sostanzialmente fermo rispetto al mese precedente, mentre cala dell’1,8% su base annua, ovvero si contano 408 mila persone in meno al lavoro.
Considerando la fascia giovanile, si conferma il refrain ribadito qualche giorno fa dall’Ocse: precari da giovani, poveri da vecchi! I disoccupati tra 15 e 24 anni sono 663 mila. L’incidenza dei disoccupati di 15-24 anni sulla popolazione in questa fascia di età è pari all’11%, in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 0,6 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro, è pari al 41,2%, in aumento di 0,7 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 4,8 punti nel confronto tendenziale. Si tratta di un record storico assoluto, il valore più alto sia dall’inizio delle serie mensili, sia di quelle trimestrali.
Il numero degli “scoraggiati”, coloro che non cercano lavoro perché ritengono di non trovarlo – ha fatto notare l’Istat – nel terzo trimestre del 2013 è salito a un milione 901mila. Anche il lavoro atipico, che non è in toto precario, ma lo è per molti aspetti, ha subito un nuovo calo, il terzo consecutivo. Nel terzo trimestre del 2013, il numero di dipendenti a tempo determinato e di collaboratori scende a 2 milioni 624mila. Il dato segna un calo di 253mila unità (-8,8% su anno). Si tratta di una diminuzione ancora più forte rispetto a quella registrata per i dipendenti a tempo indeterminato (-1,3%).
Il numero degli “scoraggiati” rilevato dall’Istat (sulla fascia 15-64 anni) lascia qualche dubbio rispetto ai dati periodicamente diffusi dall’Ocse, che parla di oltre 2 milioni di inattivi, i cosiddetti Neet (Not in education, employment or training), solo nella fascia 15-29: sarebbero infatti oltre i 2 milioni i giovani (più del 20% della popolazione nazionale di riferimento) che non sono iscritti né a scuola, né all’università, né lavorano e nemmeno seguono corsi di formazione o di aggiornamento professionale. Secondo uno studio Eurofound, gli inattivi italiani costano allo Stato 26 miliardi (corrispondente a quota di Pil non prodotta): in poche parole, l’esercito inoperoso dei Neet italiani ipoteca, oltre al proprio futuro, circa 26 miliardi di euro all’anno, pari al 1,7% del Pil, al netto delle mancate tasse, dei costi indiretti in termini di salute e criminalità, oltre che di perdita di competitività sociale.
I numeri abnormi della rassegnazione, della disoccupazione di lunga durata (che della prima costituisce l’anticamera) e le criticità del sistema economico italiano, ci dicono a chiare lettere che la strada per la crescita non è soltanto la creazione di posti di lavoro, ma è soprattutto quella di creare valore – utilizzando un’espressione cara a Stefano Colli-Lanzi; ovvero di fare scelte che siano fruttifere non solo nel breve termine. Molti giovani rassegnati sono il prodotto di percorsi universitari interrotti, di cui non hanno avvertito il senso: a volte non per colpa loro, ma perché il senso proprio non c’era. Si tratta quindi di crescere dal punto di vista del “matching”, ovvero dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, agendo sia sulla domanda che sull’offerta. Chiaro che gli intermediari ma anche il Sistema Education possono fare la loro parte.
Crescere dal punto di vista del “matching” significa accrescere, da una parte, la capacità delle persone di essere maggiormente “occupabili”, anche in ragione di un processo di adattamento che l’economia globale ha imposto (il posto si cerca dove c’è); dall’altra, si tratta di lavorare sulla capacità delle imprese di innovarsi, di trasformarsi, di rigenerarsi e di riposizionarsi sul mercato, con nuovi prodotti ma anche con nuove strategie. Non dimentichiamo che le imprese che in Italia sono in fase di crescita sono quelle esportatrici (il 40% circa del totale); quelle che hanno problemi (il restante 60%) operano solo sul mercato interno, la cui domanda è ferma.
Come fare a supportare queste imprese? Il problema resta lo sviluppo, parliamo di politiche economiche e del lavoro che molti paesi europei attuano senza difficoltà, note a tutte gli operatori, ma che evidentemente costano qualche sacrificio alla nostra immobile classe politica, il problema più condizionante per la crescita di cui questo Paese ha bisogno.
Inoltre, sempre pensando alle imprese, in un’ottica geopolitica di ripresa e sviluppo, limitatamente a ciò che l’Occidente saprà fare (se guarderà a Est, oppure a Ovest, ad esempio), sarà utile pensare concretamente a come riportare a casa le produzioni industriali dopo i processi di delocalizzazione degli ultimi 30 anni, in modo da favorire la crescita dell’occupazione. Per quanto riguarda il nostro Paese, in quest’ottica sarà molto importante non solamente facilitare questo processo, ma anche perfezionare e valorizzare il nostro sistema di istruzione e formazione, mettendolo in una migliore condizione di dialogare e di “ascoltare” il mercato del lavoro, in modo tale che i corsi di laurea non nascano sulla base di fantasiose illuminazioni del tutto scollegate con la realtà e che non fanno che aumentare spesa pubblica e disorientamento giovanile, ma sia piuttosto fondato su esigenze reali di mercato e imprese.
Si valutava in un recente articolo a proposito dei cosiddetti “cervelli migranti” e degli studenti che scelgono le università estere, come oggi l’università italiana sia di fatto sempre meno apprezzata: negli ultimi 10 anni il numero dei corsi di laurea è cresciuto esponenzialmente, in modo più funzionale all’offerta (le cattedre, o meglio le teste dei neo-professori da impiegare) che alla domanda (gli studenti). Lo stesso Senatore Sacconi, nella trasmissione Virus di Nicola Porro del 18 ottobre 2013, ha ammesso candidamente che la politica attraverso l’espansione dell’università ha comprato consenso. I giovani hanno semmai accresciuto il loro dramma: nessuno come noi in Europa e nell’area Ocse rispetto ai numeri della generazione dei Neet.
Il disastro della nuova università (dopo le varie riforme) è cosa nota. I dati di AlmaLaurea e Fondazione Agnelli hanno ampiamente dimostrato il fallimento del 3+2 e del finto processo di specializzazione: tant’è che, oltre al crollo delle iscrizioni, crescono come abbiamo visto le dimensioni del disorientamento dei giovani e della mobilità studentesca.
Tuttavia, conservano molto interesse le analisi di S. Avveduto e M.C. Brandi che, utilizzando dati Istat relativi alla cancellazione dall’anagrafe dei laureati in Italia, hanno evidenziato come ogni anno l’Italia perda circa 3.000 laureati che vanno all’estero in cerca di fortuna. Secondo l’Ocse, sono 300.000 (trecentomila) i laureati che hanno deciso di lasciare il loro Paese e sono diventati ricchi senza smantellare “un tessuto sociale in cui l’accesso al lavoro dipende dai contatti familiari, dalle affiliazioni politiche e dalle raccomandazioni” (l’Economist, che ha scritto del caso italiano, per dire raccomandazioni usa proprio il vocabolo italiano). Il 45% si è trasferito in Nord America e il 40% è rimasto in Europa. Dati dell’Ue indicano che circa 34mila laureati, cioè un terzo di tutti i laureati espatriati, sono impiegati in attività di Ricerca e Sviluppo. Strano che nel nostro mercato del lavoro per loro non ci fosse posto…
Ora: i settori che fanno crescere l’economia sono proprio quelli dell’innovazione, della ricerca e dello sviluppo, dove il capitale umano dei giovani può essere meglio speso. Questo può chiaramente creare un circuito virtuoso: creare occupazione per i giovani e crescere la competitività del Paese. I paese europei che più investono nell’innovazione sono quelli più virtuosi nell’occupazione giovanile. Dalle nostre parti, se c’è la “fuga dei cervelli”, i cervelli ci sono e qualcuno li forma: l’università italiana non è tutta da buttare, e ciò è evidente se ci sono 34mila laureati italiani che lavorano in Europa nel settore della R&S. Non è che, forse, il problema di fondo è quello di un mercato del lavoro ancora legato a logiche molto “informali” e familistiche?