Disoccupazione under 24 da record in Italia. A dirlo sono i dati diffusi venerdì scorso dall’Istat, secondo cui a gennaio la disoccupazione giovanile è arrivata al 38,7%. A livello generale la disoccupazione è salita all’11,7%. Sono i numeri più alti sia rispetto all’inizio delle serie storiche mensili nel 2004, sia rispetto a quelle trimestrali nel quarto trimestre del 1992. Livelli record anche per i “precari”: si tratta di 2,8 milioni di lavoratori. Secondo l’Istat, i contratti a termine lo scorso anno sono stati 2,375 milioni (di cui 1,7 a tempo pieno e 675mila a tempo parziale) a cui si aggiungono 433mila collaboratori. Ora, premesso che non tutto ciò che è a termine o sottoforma di collaborazione è da considerarsi precario, è chiaro che il “precariato” non è un’invenzione mediatica e che sono stati soprattutto i giovani a fare le spese del fenomeno della precarizzazione del lavoro.



Ricordiamo, oltre ai numeri del lavoro precario, anche quelli dell’inattività: sono oltre 2 milioni i giovani che non studiano e non lavorano. Questo esercito inoperoso di 2 milioni di giovani ipoteca, oltre al proprio futuro, circa 26 miliardi di euro l’anno pari al 1,7% del Pil, al netto delle mancate tasse, dei costi indiretti in termini di salute e criminalità, oltre che di perdita di competitività sociale (fonte Eurofound). Cos’ha reso il lavoro giovanile così precario e marginalizzato, quali conseguenze comporta la poca inclusione dei giovani nel mercato del lavoro e, soprattutto, come affrontare la precarizzazione del lavoro sono domande le cui risposte sono ormai sin troppo chiare.



Per quanto riguarda la prima domanda, l’esclusione dei giovani ha radici lontane e culturali, la crisi economica di questi ultimi anni ha fatto semplicemente esplodere questo deficit, che si riverbera certo sul mondo del lavoro, ma che viene prodotto e coltivato anche altrove, soprattutto a scuola e in famiglia. Come scrive in un suo saggio la giovane scrittrice Benedetta Cosmi, “proliferano corsi di laurea per inseguire la specializzazione, ma la domanda di lavoro continua a chiamare alla vecchia maniera”. Sono stati letteralmente inventati corsi di specializzazione più a favore dell’offerta (gli insegnanti) che della domanda (gli studenti).



La nostra amministrazione del resto da decenni favorisce la crescita a debito di un apparato statale poco produttivo, poco propenso a rispondere ai bisogni dell’economia reale e che la Cgil oggi, col suo piano per il lavoro, vorrebbe prolungare. E l’università, più che la scuola, non è sfuggita a questo meccanismo.

Questa proliferazione del sapere illude il giovane che una volta specializzato farà il lavoro per cui si è formato e, soprattutto, che è pronto per il lavoro. Naturalmente non è così, anche a causa della scarsa alternanza scuola-lavoro. La difficoltà di un giovane a trovare lavoro in un mercato per lo più regolato da relazioni familistiche è quindi alimentata dalla pretesa del lavoro ideale: difficilmente il giovane apprende che il lavoro ideale si costruisce, si insegue lavorando, anche facendo il lavoro non ideale.

Si consideri anche che i giovani in gran parte, anziché essere parte attiva e propellente nella società e nell’economia, dipendono dai genitori fino a oltre i 30 anni; questo ha concorso alla loro mancata autonomizzazione, come ha più volte scritto il sociologo Luca Ricolfi descrivendo “la generazione dei padri e delle madri iperprotettiva e per nulla esigente, e la generazione dei figli, spensierata finché l’età e le risorse familiari glielo consentono, e disperata quando deve cominciare a marciare con le proprie gambe”. Non parliamo poi di quanto nel lavoro sia forte, soprattutto nelle istituzioni accademiche e politiche, ma anche nelle grandi professioni e nei centri del potere culturale, la corporazione dei garantiti e dei geronti che non mollano a scapito dei nuovi e precari.

Detto questo, la rete dei servizi per il lavoro non è stata in grado di compensare, attraverso il collocamento e ricollocamento, l’introduzione della regolazione flessibile del lavoro; questa è la causa principale della precarizzazione del lavoro. Non è la regolazione flessibile del lavoro che di per sé rende il lavoratore precario. Il nostro è un welfare impreparato a dare risposte vere: non può essere ridotto a voce di costo e non può continuamente favorire solamente la generazione degli adulti e dei garantiti. La crisi ha risparmiato in gran parte i lavoratori, i loro posti di lavoro, la loro cassa integrazione, la loro aspettativa pensionistica: ma allo stesso tempo ha tolto speranza alla grande maggioranza delle nuove generazioni, che oggi non hanno nessuna certezza sul loro futuro, neanche quando hanno dalla loro titoli e curricula in regola. Non solo i giovani oggi si ritrovano senza nulla, ma hanno anche il conto da pagare: questo a riprova del fatto che una volta i padri lavoravano per i figli, mentre da tempo i padri lavorano per la conservazione del loro status. Si è completamente interrotta la catena di solidarietà intergenerazionale.

Le conseguenze della marginalizzazione dei giovani nell’economia e nel lavoro sono gravi, è proprio ciò che sta determinando l’incapacità delle imprese di innovarsi. I giovani sono portatori di innovazione, si pensi solamente alle nuove tecnologie. Chi meglio dei nativi digitali le sa utilizzare? Chi meglio di loro le saprebbe sfruttare per accrescere relazioni nell’epoca dei social network e dell’economia globale? I paesi europei che più investono nell’innovazione sono quelli più virtuosi nell’occupazione giovanile e quelli che attirano più giovani dagli altri paesi. I nostri, infatti, vanno a cercare fortuna all’estero, impoverendo la nostra economia che li esclude e contribuendo alla crescita di altre economie dove sono piuttosto apprezzati e valorizzati. Questo per dire anche che c’è qualcosa di buono da salvaguardare nel nostro sistema di istruzione e formazione.

Come uscire da questa situazione? O meglio, cosa fare per iniziare un vero processo di inclusione dei giovani nel mercato, di innovazione e di crescita dell’economia? Si discute ancora di welfare state e di nuovo welfare. Intanto che si discute tra un modello e l’altro e di una società che invecchia ma non di una società che ha sempre meno giovani e che si sta impoverendo, per fortuna qualcuno sottolinea che il vero bisogno è quello di un welfare progettuale, di un welfare che sappia identificare quali sono le necessità e che sappia dare risposte in modo organizzato.

Non si fa questo destinando risorse di volta in volta per gli ammortizzatori sociali, lo si fa innanzitutto capendo quali sono i bisogni, quali le risposte da dare, cosa il pubblico è in grado di fare e cosa il privato può fare raccordato con il pubblico. Lo si fa, per esempio, identificando in modo netto delle soluzioni che il legislatore può favorire: se il lavoro somministrato è una di queste, va reso attraente per le imprese e va semplificato, va liberato nella sua possibilità di utilizzo; se l’apprendistato è una via buona per favorire occupazione giovanile, va reso attraente per le imprese. Le aziende lo sottoutilizzano: perché? Si tratta forse di una legge sbagliata? Non è così visto che è espressione di una forte intesa tra Stato, Regioni e Parti Sociali.

Chi scrive, anche per ragioni anagrafiche, sta dalla parte dei giovani e di chi auspica un cambiamento soprattutto culturale. Credo sia fondamentale superare la cultura conflittuale nel lavoro che ancora oggi contrappone imprese e lavoratori, per volere soprattutto di una certa politica e di una certa parte del sindacato, in un momento in cui gli interessi degli uni e degli altri sono più che mai convergenti. Non meno di 10 giorni fa, abbiamo appreso dalla Cgia di Mestre, su dati del ministero dell’Economia e delle Finanze, quanto siano cresciute nel 2012 anche le partite Iva: ne sono state aperte 549.000 (+2,2% sul 2011) e il 38,5% del totale, pari a 211.500 (+8,1%), sono ascrivibili a giovani con meno di 35 anni. Come si può chiedere ai giovani di essere imprenditori di se stessi quando nelle aule delle università e sui giornali si contrappone ancora capitale e lavoro?

Leggi migliori e cambiamento culturale non saranno comunque sufficienti. Pur condividendo l’idea di fondo di una società anziana ed egoista, lo stesso Padoa Schioppa, che coniò il temine “bamboccioni”, disse: “Se volete il mio posto venitevelo a prendere, io non ve lo cedo”. Ecco ciò che comunque ciascuno di noi è chiamato a fare, nessuno cederà mai nulla a chi per primo non crede in se stesso.