“Gli effetti della fase negativa del ciclo ancora in corso si sono riflessi in un peggioramento diffuso delle grandezze più rilevanti del mercato del lavoro. Sono diminuiti gli occupati, è cresciuta la disoccupazione, resta difficile la condizione giovanile”. Con questa frase introduttiva inizia il capitolo sul mercato del lavoro, del Rapporto annuale Istat 2013, presentato ieri. Il rapporto è ampio e analizza, per il periodo 2008-2012, l’andamento dei principali indicatori, le dinamiche in atto dal punto di vista territoriale, economico, per classi di età, di genere e riporta il confronto con alcuni dati europei.
In questi cinque anni, dopo la caduta del 2009, c’è stata una lenta ripresa degli occupati, ma nel 2012 si è ripresentata una nuova caduta e il saldo complessivo del periodo è di -506 mila unità. I nostri tassi di occupazione si sono cioè ulteriormente allontananti dalla media Ue-27. Anche la disoccupazione, che si è sempre attestata sotto la media europea, dall’aprile 2012 l’ha superata; i disoccupati sono aumentati in questi anni del 60% (del 30% solo nel 2012, circa 600 mila unità). Più della metà dei disoccupati si trovano nella classe di età tra i 30 e 49 anni, ma il divario tra il tasso di disoccupazione di questi e i giovani (15-29 anni) è rilevante: nel 2012 è pari a 16 punti percentuali. Inoltre, occorre sottolineare che è aumentata la disoccupazione di lunga durata, infatti un disoccupato su due lo è da almeno un anno.
Gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione) hanno solo inizialmente contribuito a ridurre gli effetti della crisi; è infatti aumentata la probabilità di transitare verso la disoccupazione per coloro che sono in cassa integrazione.
In questo quadro generale è importante evidenziare alcuni effetti della disoccupazione sulla struttura degli occupati: da una parte si è accentuata la polarizzazione tra tipologie contrattuali, diminuiscono gli occupati a tempo pieno e indeterminato (-5,3% tra 2008 e 2012, -2,3% nell’ultimo anno), aumentano quelli atipici (+2,2% nei cinque anni) e i dipendenti a tempo parziale (+19,4% tra 2008 e 2012); dall’altra la ricomposizione a sfavore delle professioni più qualificate, mentre aumentano quelle esecutive nelle attività commerciali e nei servizi, e infine si riducono le classi di età dei giovani e delle classi centrali e aumentano quelle più anziane (i 60-64 anni aumentano nei cinque anni del 2,7%).
Infine, per i giovani si riscontrano diverse importanti criticità. Non solo l’occupazione si riduce (di 7 punti in quattro anni), ma aumenta considerevolmente la disoccupazione (il tasso di disoccupazione dei giovani tra 15 e 29 anni è passato solo nell’ultimo anno dal 20,5% al 25,5%) e la quota di Neet, cioè di giovani che non lavorano e non studiano, in Italia nel 2012 arriva oltre a 2,2 milioni, con un aumento solo nell’ultimo anno di 95 mila unità. È importante sottolineare che la condizione di Neet è, rispetto agli altri paesi, meno legata alla condizione di disoccupato e più al fenomeno dello scoraggiamento.
Il quadro, pur se per cenni e in sintesi, non è certamente confortante e mostra le negative ripercussioni della crisi sull’occupazione. I problemi del Paese sono tanti e la crisi dei debiti sovrani ha certamente influenzato le scelte politiche di questi ultimi anni a scapito, è sempre più evidente, dello sviluppo e dell’occupazione. Ma l’occupazione, poter lavorare, è un aspetto primario per la dignità della persona e rappresenta certamente un indicatore di qualità per la società.
Quali le possibili prospettive? Cosa si può fare? Due aspetti credo possano essere oggi rilevanti: il primo riguarda la responsabilità dei singoli, il secondo quella delle istituzioni. Ripartire dal valore della persona rappresenta certamente il fattore primario per rimettere in gioco una capacità di aiuto dei singoli e delle comunità con tentativi che contribuiscano fattivamente alla ricerca di opportunità lavorative. Sono molti gli esempi di solidarietà umana e sociale presenti nel nostro Paese a cui guardare per riflettere sull’immagine di società che vogliamo.
In secondo luogo, le istituzioni devono agire per l’attuazione di politiche per lo sviluppo e l’occupazione maggiormente rivolte al bene comune. Occorre superare logiche di parte che producono leggi sempre più complicate e intricate che rischiano sostanzialmente di bloccare le capacità di intervento delle aziende e la responsabilità dei singoli.
In questa direzione alcuni punti credo siano da privilegiare: semplificare la gestione dell’apprendistato per i giovani e favorirne l’utilizzo attraverso la totale riduzione dei contributi fiscali e la rimodulazione del salario tra i più giovani (diplomati) e i laureati; rimuovere gli ostacoli delle normative sui contratti a termine, in particolare i blocchi sui loro rinnovi; investire nelle aziende e nei settori che mostrano maggior capacità di sviluppo e creazione di occupazione.
Un fatto è tra gli altri più evidente nella crisi che stiamo attraversando: la velocità e rapidità con cui si verificano le ripercussioni delle scelte e dei fatti che accadono sull’occupazione. Occorre fare presto.