Secondo gli standard europei, una società è socialmente ed economicamente in equilibrio quando ha almeno il 70% di popolazione in grado di lavorare effettivamente occupata. Alcuni paesi europei, nonostante la crisi, sono su questi obiettivi, ma l’Italia ne è molto lontana, anche per il più alto tasso di lavoro sommerso. La recente rilevazione Istat diffusa venerdì, riferita ad aprile, ci dice che il tasso di occupazione è pari al 56,0%, in calo di 0,1 punti percentuali nel confronto congiunturale e di 0,9 punti rispetto a dodici mesi prima. Il tasso di disoccupazione si attesta al 12,0%, in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto a marzo e di 1,5 punti nei dodici mesi.



Tra i 15-24enni le persone in cerca di lavoro sono 656 mila e rappresentano il 10,9% della popolazione in questa fascia d’età. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero l’incidenza dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 40,5%. La disoccupazione giovanile nell’Eurozona ha toccato ad aprile il livello più alto mai raggiunto dal 1995: il 24,4%. L’Italia, con il suo 40,5% di giovani disoccupati, è al quarto posto dopo Grecia (62,5%), Spagna (56,4%) e Portogallo (42,5%) (fonte Eurostat).



Per quanto riguarda invece l’esercito inoperoso di giovani inattivi – e i suoi costi – abbiamo più volte scritto: si tratta di 2 milioni di giovani che ipotecano, oltre al proprio futuro, circa 26 miliardi di euro l’anno pari al 1,7% del Pil, al netto delle mancate tasse, dei costi indiretti in termini di salute e criminalità, oltre che di perdita di competitività sociale (fonte Eurofound). Tuttavia, la recente rilevazione di Almalaurea, a dispetto dello stereotipo auto-assolutorio che vuole i giovani “bamboccioni” lenti e svogliati, ci dice che gli studenti italiani hanno messo il turbo.



La ricerca condotta su 225 mila laureati di 63 università, presentata la scorsa settimana allo Iulm di Milano, rileva che l’età della laurea passa dai 26,8 anni del 2004 ai 24,9 del 2012; la media è 23,9 anni per i laureati di primo livello, 25,2 per i magistrali e 26,1 per i magistrali a ciclo unico. La ricerca fa emergere anche una certa regolarità nell’iter di studi: nel 2001 i laureati in corso non arrivavano al 10%, nel 2012 erano il 41%. Inoltre, il 31% è disponibile a trasferte di lavoro frequenti (solo il 3% si dice contrario a priori), per il 44% non è un problema spostare la residenza.

Sarà anche che, in epoca di crisi, il numero degli iscritti all’Università è notevolmente calato (-17% nell’anno accademico 2011-2012 rispetto all’anno 2003-2004) e, probabilmente, chi si iscrive oggi è più determinato di ieri. È, quindi, cosa più che auspicabile un cambio di rotta tra le nuove generazioni.

Nel frattempo Enrico Letta, dopo aver incontrato Hermann Van Rompuy prima del Consiglio europeo, ha annunciato un piano nazionale contro la disoccupazione giovanile che si concentrerà su priorità quali l’istruzione e il Sud. Il Piano sarà varato prima della fine di giugno, così che sia approvato dal Parlamento prima dell’estate e sia operativo nel secondo semestre dell’anno. Ciò che il governo sta predisponendo è un’attuazione in Italia della Youth Guarantee, progetto europeo che ha come obiettivo trovare un lavoro ai giovani under 25 nel giro di pochi mesi.

La Youth Guarantee prevede di utilizzare in modo più efficace i Servizi pubblici per l’impiego (Spi) e di costringerli a fare – entro quattro mesi – un’offerta di lavoro al giovane preso in carico, sia esso un neodiplomato, un disperso, piuttosto che un neolaureato. Non si tratta quindi solamente di servizi di accoglienza, orientamento e formazione: l’Europa chiede esplicitamente ai Spi di dare lavoro ai giovani. Ricordiamo che in Italia i risultati dei Spi in termini di collocamento e ricollocamento si aggirano intorno al 4%, tant’è che da più parti di diverso colore politico li si vorrebbe del tutto chiudere: sono ritenuti solamente un costo per le casse dello Stato.

Facendo un passo indietro, nel 1997 il caso Job Centre – che ebbe tra i protagonisti il Prof. Pietro Ichino in difesa appunto della Job Centre – sentenziò a livello europeo che il monopolio pubblico del collocamento, anche per la sua acclarata inefficienza, si doveva considerare in contrasto con i principi comunitari a protezione della libera concorrenza, liberando di fatto le allora “Agenzie interinali” nell’attività di intermediazione al lavoro e di fornitura di lavoro temporaneo. Sedici anni dopo, in Italia, i Spi continuano a non essere un mostro di efficienza e permangono vincoli agli operatori privati (solo il 3% dell’incontro domanda-offerta del mercato italiano è coperto dalle Agenzie per il lavoro – Apl).

L’articolo 13 del dlgs 276/03, la cosiddetta legge “Biagi”, nell’ottica di raccordare pubblico e privato, ne prevede misure di incentivazione. Di fatto, a oggi, pubblico e privato si sono raccordati molto poco: il raccordo non consiste nel permettere agli operatori privati, in quanto soggetti accreditati, di fare politiche attive; il raccordo tra pubblico e privato consiste in un lavoro integrato che, proprio in un’ottica di ricollocamento e – più in generale – di politiche attive, può dare risposte ai grandi problemi della disoccupazione e della disoccupazione giovanile in particolare.

Perché? Il pubblico ha molta più facilità nel lavorare sulla domanda; prendiamo, ad esempio, il caso dei giovani: i Spi possono lavorare con scuole e università, intercettare ragazzi in uscita e la stessa dispersione scolastica, possono ricevere dati sensibili da queste ultime (in quanto Pubblica amministrazione). Non lo possono fare le Apl. Ecco che nelle fasi di censimento e presa in carico i Spi possono avere la loro importante funzione. Perché non incentivare in modo effettivo il loro raccordo con le Apl?