La Commissione europea promuove, da sempre, la mobilità geografica come una strategia per ridurre il disallineamento tra la domanda e l’offerta nei mercati del lavoro europei. L’Europa, ad esempio, la stimola anche all’interno della Garanzia Giovani nella convinzione che questa possa aumentare le possibilità occupazionali dei “Neet”. Tuttavia, gli sforzi a livello comunitario per promuovere la mobilità sono, in molti casi, coperti, a livello nazionale, dalle preoccupazioni per i potenziali effetti negativi di afflussi di migranti, tra cui la svalutazione dei salari locali, l’abuso dei sistemi di welfare e l’onere finanziario che gli stranieri non attivi possono porre sulla sostenibilità dello Stato sociale.

In questo quadro di riferimento, Eurofound, la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita, sottolinea, in uno studio pubblicato solo pochi giorni fa, come, attualmente, sebbene i livelli di migrazione siano estremamente bassi all’interno e tra gli Stati membri dell’Ue rispetto ad altre regioni Ocse, la percentuale di immigrati comunitari che lavorano nell’Ue sia in aumento.

Rispetto al dato relativo alla migrazione all’interno e tra gli Stati membri dell’Ue, come già detto, si registra che questo è, certamente, basso. Si vede, infatti, come, nel 2010, il tasso di migrazione transfrontaliera per la popolazione europea in età lavorativa (15-64 anni) fosse solo lo 0,3% della popolazione dell’Ue a 27, e che si arrivasse a circa l’1% per la migrazione interregionale. Si pensi, a titolo esemplificativo, che il tasso di migrazione tra le quattro regioni principali degli Stati Uniti è pari all’1,2%, mentre il tasso attraverso stati degli Stati Uniti è, addirittura, del 2,4%. Tuttavia il rapporto europeo evidenzia come vi siano segnali che una quota crescente dei flussi migratori in Europa è rappresentato da lavoratori mobili della stessa Ue, in parte in risposta alle diverse, e difficili, condizioni dei mercati del lavoro.

Lo studio sottolinea, inoltre, come, nel complesso la situazione del mercato del lavoro si sia, durante la crisi, deteriorata per i lavoratori migranti dell’Ue rispetto ai lavoratori nazionali. La disoccupazione è aumentata, infatti, del 5,5% per i lavoratori migranti dell’Ue tra il 2008 e 2012, rispetto a 3,3 punti percentuali per i lavoratori nazionali. Stessa dinamica ha interessato i tassi di occupazione che sono diminuiti di più per i lavoratori migranti. Quest’indice, è opportuno evidenziare, rimane in ogni caso superiore tra chi percorre processi di mobilità (66%) rispetto a quello dei lavoratori nazionali (64,5%).

I flussi di mobilità transfrontaliera più significativi sono, quindi, quelli Est-Ovest che dominano quelli Sud-Nord. Così come Germania e Regno Unito sono (e rimangono) i principali paesi di destinazione anche a causa di un aumento dei flussi di migranti provenienti dalle economie in difficoltà dell’Europa meridionale e dell’Irlanda. I flussi da Grecia e Spagna, per esempio, sono più che raddoppiati nel periodo 2007-2011.

Un Paese, insomma, mostra la sua prospettiva di sviluppo anche dalla capacità di attrarre capitali finanziari, e umani, in movimento. C’è da auspicare, quindi, che in questa direzione operi il Jobs Act e che si creino, a partire dai prossimi mesi, quelle condizioni favorevoli alla promozione, anche in Italia, della mobilità professionale di qualità. Diventare, infatti, un luogo di attrazione per il capitale umano rappresenta un elemento cruciale di competitività di un Paese in un mondo sempre più globale come quello in cui stiamo vivendo.

 

In collaborazione con www.amicimarcobiagi.com