Il concetto di crisi ha più un valore emozionale che logico-analitico. Perché dice, nella percezione generale, che ci troviamo di fronte a una situazione che mette in crisi certezze consolidate, traguardi dati per scontati, convinzioni sinora ritenuti ovvii. Mentre niente vi è di ovvio, nel fluire della vita, la quale non accetta mai, epoca dopo epoca, che una cultura si possa ridurre a maschera psicologica, personale o di gruppo. La cultura è sempre-oltre, socraticamente. Quando si intendono affrontare, con sguardo disincantato, anche le ragioni dell’attuale stagione socio-politica-economica-valoriale, sarebbe cosa buona e giusta evitare, per quanto possibile, le indebite interferenze di vecchi e nuovi stati d’animo. Per tentare di capire come “stanno effettivamente le cose”, oltre le tante maschere, per anticipare che prima o poi appaia all’orizzonte qualcuno che si faccia carico di riconoscere che “il re è nudo”.
Quindi, è sempre meglio limitarsi ai dati e alle linee di tendenza, per non lasciarsi sommergere dalla dominante, di nicciana memoria, convinzione che “non esistono i fatti, ma solo le interpretazioni”. Senza accorgersi che affermare che tutto è interpretazione è anch’essa una interpretazione. Una delle tante, non l’unica. All’interno del mondo della scuola, ad esempio, la parola crisi rimanda alla consapevolezza di una qualche perdita: di valore sociale, di diritti scontati sino a pochi anni fa e oggi visti come privilegi, di modelli cioè ovvii in passato ma oggi tutt’altro che accettati e condivisi, a livello di percezione sociale.
All’esterno dello stesso mondo, da un lato il mondo-scuola rimanda al valore, anzitutto educativo, di tanti docenti, per la sensibilità e la pazienza verso i propri ragazzi e verso le difficoltà crescenti delle famiglie, dall’altro è dominante l’idea che dovrebbe essere riconsiderata e ripensata la qualità dell’offerta formativa, visto il nuovo contesto globale, le inter-relazioni e inter-dipendenze, viste le opportunità da “società aperta” che i nostri giovani saranno costretti ad affrontare e la fine dei cordoni ombelicali tra formazione e sentieri occupazionali, fino a pochi anni fa indiscutibili, oggi dei veri miraggi. Intanto, i nostri giovani migliori hanno l’estero come principale chance di riscatto personale, nella speranza di un loro ritorno, per dare una mano a un Paese sempre più in difficoltà, per le mille resistenze corporative e il saldo controllo da parte dei “figli del ‘68” delle redini culturali e socio-economiche.
Tenendo conto di tutto questo, fa comunque piacere, per chi crede nel valore formativo della scuola, e non solo cognitivo, leggere le dichiarazioni del presidente di Confindustria Squinzi. Un chiaro segnale di ottimismo: “Noi imprenditori – ha dichiarato – siamo ottimisti perché pensiamo che alla fine del tunnel ci sia un’uscita in cui si ritrovi un percorso di crescita che dia delle possibilità a tutti i giovani italiani, che sono di altissima qualità, di dimostrare quello che sanno fare. Credo che il nostro vituperato sistema scolastico sia di assoluta eccellenza. Io da imprenditore globale, posso testimoniare che la qualità dei giovani che escono dalle nostre università e scuole tecniche è di altissimo livello più di tanti altri Paesi. Io ho fiducia”.
Si tratta di una dichiarazione rilasciata durante l’Orientagiovani tenutosi nei giorni scorsi a Reggio Emilia, annuale appuntamento di Confindustria, che ha rilanciato il tema dell’alternanza scuola-lavoro, sino a oggi per poche classi e per pochi docenti, ma che dovrebbe diventare scelta strategica e obbligatoria per tutte le classi terze e quarte delle superiori, con risorse ad hoc, anche per stimolare e valorizzare le nuove competenze richieste ai docenti.
Come leggere la dichiarazione di Squinzi? Ottimismo un po’ della ragione e un po’ della volontà, mi verrebbe da dire. Perché ci sono sicuramente, se vogliamo commentare le sue parole, docenti e scuole di eccellenza, ma in una situazione a macchia di leopardo. Con differenze anche consistenti tra Nord e Sud. Non basta richiamare il quadro dei dati Invalsi oppure quelli Ocse-Pisa. Perché conta entrare nel vivo della vita delle scuole, oltre le statistiche, oltre i quadri sinottici e le sbrigative sintesi dei capi ministeriali e regionali. Il cuore vivo della realtà, dunque, con dati di fatto alla mano oltre le infinite ermeneutiche anche delle varie pubblicistiche scolastiche. Tanto fumo e poco arrosto. Interessate più a difendere l’esistente, che a ripensarlo sulla base delle nuove domande formative.
Un bell’esempio, tra i tanti, lo possiamo ottenere, per lo sguardo d’insieme e le tante voci coinvolte, dal recente “processo al Classico”, svoltosi a Torino nel più antico Liceo italiano. Un’analisi a più voci, con pro e contro, ma tutte interessate a comprendere il valore, ma anche i limiti, dell’offerta formativa di questo percorso liceale oggi. Un discorso teso alla sostanza, dunque, al di là delle singole prese di posizione, in alcuni casi conservatrici (di se stessi o dell’idea di Classicità oggi?), in altre tutte preoccupate di non buttare via, con l’acqua sporca, il bambino. Ma lo stesso vale per tutti gli indirizzi, liceali, tecnici e professionali. Un dialogo aperto, che manca, di cui si sente l’assoluta necessità, oltre i quadri orario, oltre i limiti organizzativi, oltre la carenza delle strutture e delle risorse.
Se poi compariamo queste esigenze con i risultati contenuti nel rapporto, uscito da pochi giorni, della Commissione Ue “Education and Training Monitor 2014”, troviamo che quell’ottimismo della volontà si scontra fatalmente col pessimismo della ragione. Mentre la media Ue, per la spesa pubblica, è del 5,3%, da noi siamo al 4% del Pil. I laureati, altro dato emblematico, da noi sono solo il 22,4%, mentre nell’Ue siamo al 38% e in Irlanda al 51%. E i docenti: solo 4 su 10 si possono dire preparati, e interessati al continuo aggiornamento. Un’indagine che non si ferma, dunque, alla auto-percezione dei protagonisti, come ritroviamo nelle varie pubblicistiche, ma che mira sodo ai risultati, cioè all’efficacia del “servizio pubblico”, quindi alla occupabilità dei titoli di studio, nei termini di uno stretto rapporto tra investimento in formazione e reali opportunità di scelta di vita.
Dunque, come emerge dal rapporto dell’Ue, la scuola italiana garantisce un servizio poco efficace ai fini dell’inserimento dei nostri ragazzi nel complicato e sempre fluttuante mondo del lavoro. Il dato che in ogni occasione mi fa pensare è quel 17% di studenti che tra i17 e i 24 hanno lasciato la scuola senza un titolo di studio. Le cause? In primo luogo, le basse competenze e lo scarso sostegno delle famiglie. Ma fa pensare anche la scarsa inclinazione al live long learning, 6,2%, di contro a un 10,5% Ue.
In termini di mobilità, il vero paradigma, assieme alla flessibilità, della nostra “società aperta”, le conseguenze sono evidenti. I giovani laureati da noi faticano oltre misura a trovare lavoro: lo trova solo il 49% in tempi accettabili, mentre in Ue siamo al 71%. Solo il 66% dei laureati italiani è riuscito, adattandosi, a trovare una qualifica medio-alta. Per i docenti: il 38% viene giudicato “non abbastanza qualificato”, mentre solo il 31% utilizza nuove tecnologie. E solo il 75% è disposto a formarsi in queste nuove competenze. Almeno a parole.
Resta il punto archimedeo: quale futuro possiamo garantire ai nostri giovani se, nel nostro territorio, le imprese assumono, quando assumono, solo il 14,5% di laureati, per il 40,9% di diplomati, di contro al 30% di laureati ad esempio in Olanda e nella Gran Bretagna, al 22% in Germania e in Francia, con una media europea del 27%. Mentre, cioè, in tempi di drammatica disoccupazione, gli altri paesi puntano sulle competenze dei giovani in gamba, noi invece crediamo ancora, come sistema-Paese, di garantirci un futuro attraverso la sola “arte di arrangiarsi”.
Si dirà che non basta avere una laurea in mano per trovare adeguate offerte di lavoro. Tutto vero. Perché ci sono lauree e lauree. Ma qui si torna ai nodi da sempre irrisolti. Uno dei quali riguarda l’orientamento alle scuole superiori e all’università. Perché oggi non contano le prove in uscita, nei percorsi di studio, ma quelle in entrata e in itinere.
Dunque andrebbe ripensato l’orientamento alla scelta delle superiori, con test d’ingresso, come per tutte le facoltà universitarie, a oggi solo al 40%. Prego in ingresso e in itinere, infine, non solo per gli studenti, ma per tutti gli operatori della scuola (presidi, studenti, personale), ai fini della valorizzazione di un “servizio” che, piaccia o no, rimarrà sempre il cuore pulsante di un Paese che non teme le crisi e le nuove domande di futuro.
Come si vede, attraverso il tema dell’orientamento siamo entrati nel cuore pulsante di tutta l’offerta formativa, anche quella universitaria. E proprio in ragione delle considerazioni sin qui svolte, merita una particolare citazione l’annuale appuntamento col Job Orienta di Verona, quest’anno previsto dal 20 al 22 novembre (24esima edizione). Un momento di vetrina, dirà qualcuno. Ma, prima ancora, visto il ricco programma, uno snodo di riflessione oggi imprescindibile, perché offre il quadro odierno di quei problemi e di quelle complessità che oggi dovrebbero trovare ben maggiore spazio, (in primis) nei programmi del governo e negli impegni di tutti gli attori sociali, economici, istituzionali.
Se prese sul serio, le considerazioni e le riflessioni presentate ogni anno a Verona (sotto l’attenta regia di Claudio Gentili), riassunte in un motto (“Garanzia futuro: imparare facendo”), aiuterebbero concretamente quell’ottimismo della volontà che tutti ricerchiamo, soprattutto pensando all’avvenire dei nostri figli. Ma, e questo è il pessimismo della ragione a dettarlo, noi dobbiamo ancora iniziare a pensare il sottosuolo della crisi attuale: basta sfogliare velocemente la pubblicistica sulla formazione per rimanere sconcertati dal vuoto e dalla pochezza di analisi e di proposte. Nemmeno, in tanti ambienti della scuola, viene sfiorata l’intuizione di Holderlin: “Il rischio è la nostra salvezza”.