Mentre sulle pagine dei giornali rimbalzano le diverse opinioni sul recente scontro tra Governo e Cgil, cioè sul futuro del sindacato italiano, le statistiche che, quasi quotidianamente ci inseguono, ci dicono che la scorza dura della realtà se ne fa beffe delle nostre diatribe ideologiche. Così, assieme a segnali recessivi, con i 150 tavoli di crisi a oggi senza soluzione, si affacciano all’orizzonte alcuni piccoli segnali di vita. Che, credo, richiedano idee e strategie diversi rispetto ai riti dei tempi passati, centrati su una concertazione che finiva sempre per aggravare il nostro debito pubblico. Questi piccoli segnali li troviamo nei dati Istat relativi alla disoccupazione di settembre.



Gli stessi dati che dovrebbero comportare, oltre a nuove norme generali, come il Jobs Act, soprattutto diversi approcci, su più versanti, sul tema del lavoro, sulle sue reali opportunità, sulle prospettive di occupabilità dei titoli di studio, ai fini di un reale raccordo tra formazione e lavoro. Da un lato, è oggi difficilmente comprensibile, per dare un primo esempio, come i Centri per l’impiego possano corrispondere alla dinamicità del mondo del lavoro, se lasciati alla gestione del servizio pubblico, e dall’altro andrebbe, come suggerisce Innocenzo Cipolletta, già direttore di Confindustria e presidente del cda dell’Università di Trento, cambiato il metodo di rilevamento da parte dell’Istat del valore della produzione, a oggi solo meramente quantitativo, invece che sul fatturato nel suo complesso, come avviene in Germania.



Andrebbero proposti, dunque, nuovi approcci di lettura della nostra complessità, per offrire al nostro “sistema Paese” uno sguardo completo sulla sua reale situazione, per consentire, con l’ausilio di maggiori informazioni, reali opportunità in particolare ai giovani di oggi. Questa complessità ci dice, ad esempio, che tornano a crescere le ore di cassa integrazione richieste, cioè 104 milioni, per oltre un milione di lavoratori. Vedremo se questo nuovo dato comporterà un aggiustamento, nella Legge di stabilità in discussione, delle politiche attive e passive.

Dove sono, dunque, quei piccoli segnali, da diversi organi di stampa in questi giorni sottolineati a più non posso, a seguito della pubblicazione dei dati Istat su occupati e disoccupati? La risposta non è immediata. Se, infatti, la disoccupazione ha continuato a crescere (12,6%), la novità riguarda l’aumento di coloro che hanno ricominciato a cercare un posto di lavoro. Un segnale di fiducia che andrebbe, si diceva, incoraggiato e sostenuto. Vedremo se il Jobs Act risponderà a questo appello e se il mondo sindacale uscirà dal tunnel ideologico del Novecento.



Sono in 3,2 milioni coloro che stanno cercando un impiego, mentre gli inattivi, cioè coloro che non lavorano e non cercano una occupazione, scendono al 35,9%. Il dato sui giovani è al 42,9%, con una piccola flessione. Dati incoraggianti, ha commentato il ministro Poletti, visti gli 82.000 posti di lavoro creati in un solo mese.

Resta poi la domanda sul tipo di occupazione. Il rapporto Istat non lascia scampo: più di 400.000 rapporti di lavoro nell’ultimo trimestre sono durati solo un giorno e 900.000 meno di un mese. Occupazione, dunque, a frammenti, che da un lato dice di una precarietà a tutto tondo, e dall’altro dell’impossibilità, come invece vorrebbe la Cgil, di cancellare per legge queste opportunità, pur così frammentarie. Un modo per dire che saranno la flessibilità e l’adattabilità le parole d’ordine di questa nuova stagione sociale, le quali, da sole, ovviamente, non potranno dirsi sufficienti, se non sostenute da competenze spendibili e accertabili sui risultati, non solo sui titoli di studio, cioè sui pezzi di carta. L’uscita dalla precarietà, dunque, passerà solo da questa capacità di mettere a frutto talenti ed energie personali. Altro che “posto fisso” a prescindere, come qualcuno vorrebbe ancora oggi.

Cosa dovremmo dire, a questo punto, ai nostri giovani, dai 15 ai 24 anni? Oltre a sottolineare il cambio di passo di questi anni, è giusto ricordare loro che i dati Istat dicono, da un lato, di un aumento di occupazione del 2,4% rispetto al mese precedente, dall’altro, però, ci ricordano il forte calo del 3,6% su base annua. Cioè 35.000 in meno, mentre il totale degli occupati si aggira sui 930.000. Quanti sono i giovani disoccupati sul totale dei giovani della stessa età? Siamo all’11,7%, cioè uno su 10, con un lieve calo dello 0,1% in un mese, ma con un aumento dello 0,6% in un anno.

Il problema resta il totale dei cosiddetti “giovani inattivi”, comprensivo anche degli studenti. Qui andrebbe fatta, ma sul serio, un’analisi comparativa tra percorsi formativi e occupabilità dei titoli di studio. Tema delicato, mai affrontato come si deve, con dati alla mano, in vista di scelte obbligate e foriere di concreta speranza per le giovani generazioni.

Anche il Governo Renzi, come tutti gli altri, sinora ha preferito scivolare lontano. Al più pensando alle strutture, poco al cuore dei percorsi formativi. Quest’anno arriva a regime, ad esempio, la Riforma Gelmini del 2010, eppure nessuno ha prospettato una rivisitazione delle innovazioni allora introdotte, per capire se si sono rivelate funzionali o meno alla gravità del momento, in vista di nuove opzioni e percorsi. Tutto tace. Sembra prevalere, sul mondo della formazione, solo un’opzione di tipo finanziario, in termini di soli tagli.

Anche per la Garanzia Giovani ci ritroviamo con delle belle intenzioni, senza però reale riscontro. Solo poche migliaia di giovani, per lo più del Nord, hanno ricevuto un’opportunità, di tirocinio o lavoro, grazie a questa nuova opportunità. A fine ottobre sono risultati iscritti oltre 260.00 giovani, cioè il 12% di quelli che non lavorano e non studiano: il 19% laureato, il 57% diplomato, il 24% con la terza media. Di tutti questi hanno effettuato il primo colloquio e sono stati assunti con un qualche contratto in 65.000 (questo dato si riferisce agli iscritti di agosto, che erano 170.000, quindi di un terzo).

Per chiudere, tanti dati che dicono che ci vorrebbe, in particolare per il mondo giovanile, ma prima ancora per tutto il mondo del lavoro e dell’impresa, uno sguardo d’insieme. Capace di andare oltre i singoli steccati, oltre i punti di vista dei singoli portatori d’interesse, per offrire uno spiraglio di futuro possibile. Altrimenti, per i giovani migliori, continuerà a rimanere, come unica chance, la scelta della terra straniera. Con l’impoverimento ulteriore del nostro tessuto sociale, delle competenze specifiche, delle concrete opportunità di ripresa del nostro “sistema Paese”.