Nei giorni scorsi l’Unione europea ha pubblicato l’annuale rapporto sulla crescita del continente per il prossimo anno. A questa si è accompagnata anche la contestuale pubblicazione della proposta della Commissione per la relazione comune sull’occupazione, in cui si analizza lo stato di salute del lavoro in Europa e le risposte politiche offerte dai diversi Stati membri.



La relazione dimostra, prima di tutto, come le riforme strutturali sostanziali paghino sempre e analizza, quindi, le potenzialità dell’Europa, a partire dal 2015, per migliorare sul piano occupazionale e sociale. In particolare, Marianne Thyssen, la neo-Commissaria per l’Occupazione, ha sottolineato come la creazione di posti di lavoro sia al centro del programma di lavoro della nuova Commissione. Ha evidenziato, inoltre, come l’esperienza degli Stati membri che hanno coraggiosamente riformato il proprio mercato del lavoro dimostri che le riforme pagano sul serio e che, quindi, su tale strada dovrebbero muoversi, ed essere incoraggiati a farlo, anche quei paesi che non hanno ancora fatto altrettanto.



Le previsioni economiche d’autunno della Commissione sono, tuttavia, contrassegnate da una crescita lenta e alta, ma relativamente stabile, disoccupazione (24,6 milioni di persone in tutta Europa). Anche nelle economie che stanno andando sostanzialmente bene la disoccupazione sta difatti diventando, ahinoi, strutturale, come dimostra l’incremento del numero dei senza lavoro di lunga durata.

Le dinamiche della disoccupazione in Europa sono, ciò nonostante, molto diverse. Nel settembre 2014 il tasso di disoccupazione variava, infatti, dal 5,0% in Germania e il 5,1% in Austria, a un estremo, ai dati, sicuramente meno confortanti, del 24,0% in Spagna e del 26,4% in Grecia. È utile, inoltre, sottolineare come, nel corso dell’ultimo anno, la disoccupazione sia diminuita in 21 Stati membri, sia stabile in un solo Paese, e sia cresciuta in sei. Le maggiori diminuzioni sono state registrate in Spagna, Croazia, Ungheria e Portogallo, mentre tra gli stati in cui vi è stato un ulteriore aumento figurano la Francia, la Lituania, il Lussemburgo, l’Austria, la Finlandia e, ovviamente, l’Italia.



L’analisi sul nostro Paese è, oltremodo, impietosa. Il tasso di occupazione (20-64 anni) che nell’Europa a 28 arriva a superare il 68% e, in quella a 18, si ferma poco sotto, in Italia non raggiunge, seppur per pochi decimali, il 60%. Per avere un’idea, la Germania arriva al 77% e la Danimarca è al 75%. Una stessa dinamica vale per l’indicatore che descrive il tasso di attività. Se la media europea vola al 76%, l’Italia si ferma al 67,9%, battuta anche da Croazia e Ungheria.

Dati che, similmente, si riscontrano quando ci interessiamo di occupazione giovanile (15-24 anni). Il nostro tasso di disoccupazione semplicemente doppia quello della media europea (43,3% vs 21,6%). Per amor patrio è meglio omettere, in questo caso, il dato del Paese guidato dalla Cancelliera.

In questo contesto il Jobs Act si avvia verso l’approvazione finale al Senato. Basteranno gli ambiziosi obiettivi di questo significativo – a prescindere da tutte le, più o meno, legittime critiche di metodo e di merito – sforzo riformista per far cambiare verso a questi crudi dati statistici e all’economia di questo nostro stanco Paese?

La risposta, in questo caso, non è demandata ai posteri, ma, più banalmente, alle rilevazioni e alle analisi, spesso impietose, delle grande istituzioni di ricerca, ma non solo, italiane e, in particolare, europee che verranno realizzate già a partire dai prossimi mesi.

 

In collaborazione con www.amicimarcobiagi.com