«Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, le attuali conclusioni credete che per questi quattro soldi, questa gloria da stronzi, avrei scritto canzoni; va beh, lo ammetto che mi son sbagliato e accetto il “crucifige” e così sia, chiedo tempo, son della razza mia, per quanto grande sia, il primo che ha studiato». Cantava così Francesco Guccini nel 1976 in uno dei suoi capolavori, “L’avvelenata”. Nella canzone il Guccio faceva poi dire alla madre che un laureato conta più d’un cantante. Tale affermazione, tuttavia, sembra, a distanza di quasi quarant’anni, non così scontata e i recenti dati di Almalaurea fanno seriamente dubitare sul valore e l’utilità, oggi, di possedere una laurea, almeno nel nostro Paese.
Si pensi, infatti, che, come emerge dal rapporto, nel 2012 ben il 27,7% degli italiani classificati come manager aveva completato tutt’al più la scuola dell’obbligo, contro il 13,3% della media europea a 15, il 19,3% della Spagna e il 5,2% della Germania. Sempre secondo i dati, sebbene aggiornati al 2012, la quota di manager italiani laureati è meno della metà della media europea. Se i manager laureati in Europa (Ue a 27) sono il 53% (nel 2010 erano il 44%), in Italia la percentuale si ferma a un più misero 24% (era il 14,7%). Tutto ciò accade in un Paese, è utile sottolinearlo, in cui le aspettative di raggiungere l’obbiettivo fissato dalla Commissione europea per il 2020, 40% di laureati nella popolazione di età 30-34 anni, sono ormai vanificate per ammissione dello stesso Governo italiano che lo ha rivisto, più realisticamente, ponendolo al massimo al 26-27%.
Il rapporto sottolinea, inoltre, sebbene il dato sia ormai consolidato, come la struttura imprenditoriale italiana, in particolare per la piccola dimensione delle imprese, sia tipicamente associata a una minore capacità di valorizzare il capitale umano, minori performance innovative e un inferiore grado di internazionalizzazione. In questo quadro i giovani laureati non sono, ovviamente, agevolati nel loro percorso di crescita professionale, e la crisi degli ultimi anni non ha, certamente, migliorato la situazione. A questo si aggiunge il perdurare nei nostri atenei, come nelle scuole superiori, di un’offerta formativa inadeguata e disallineata rispetto ai fabbisogni del mercato e delle imprese.
La sfida, quindi, che la politica, e più in generale la classe dirigente del nostro Paese, ha di fronte sembra essere sistemica e non risolvibile per decreto. L’Italia deve tornare a credere in se stessa accettando con coraggio le sfide del presente, dotandosi di un progetto di sviluppo del Paese e di un sogno condiviso. Le università, come tutte le altre istituzioni educative, sono chiamate a partecipare a questo processo da protagoniste impegnandosi a superare vecchi dogmi e i limiti del presente; solo così, forse, un laureato potrà tornare a contare più di un cantante.
In questo quadro il Governo Renzi è chiamato a supportare questo percorso traducendo gli slogan presenti nella prima bozza di Jobs Act in concrete politiche e scelte di governo a partire dal cuneo fiscale. La scelta in materia rappresenta, infatti, per il giovane Matteo, apprendista uomo di governo, un primo difficile esame. L’auspicio è che, alla fine, sia scelta l’opzione migliore per aiutare il rilancio del Paese e che la matricola Renzi possa registrare un bel voto sul proprio libretto.
In collaborazione con www.amicimarcobiagi.com