Welcome to the occupation cantavano i R.E.M. nel lontano 1987, quando l’Occidente aveva qualche motivo in più per sorridere: almeno da un punto di vista economico, la scena era certamente migliore! Oggi, è il caso di dire, la musica è davvero cambiata. Ce lo ricorda periodicamente, con le sue rilevazioni, anche l’Istat, in particolare per quel che riguarda il nostro Paese: proprio ieri l’Istituto nazionale di statistica ha reso noti i numeri dell’occupazione, o meglio della non-occupazione, in Italia. A febbraio 2014 gli occupati sono 22 milioni 216 mila: il tasso di occupazione, pari al 55,2%, risulta stabile in termini congiunturali ma diminuisce di 0,8 punti percentuali rispetto a dodici mesi prima. Ricordiamo che l’Europa ci dice che una società è socialmente ed economicamente in equilibrio, secondo gli standard, quando ha almeno il 70% di popolazione in grado di lavorare effettivamente occupata. Alcuni paesi europei, nonostante la crisi, sono su questi obiettivi, ma il nostro Paese ne è appunto molto lontano, anche per il più alto tasso di lavoro sommerso.
Il tasso di disoccupazione è pari al 13,0%, sostanzialmente stabile in termini congiunturali ma in aumento di 1,1 punti percentuali nei dodici mesi. È il tasso più alto sia dall’inizio delle serie mensili, gennaio 2004, sia delle trimestrali, primo trimestre 1977. I disoccupati tra i 15-24 anni sono 678 mila. L’incidenza dei disoccupati di 15-24 anni sulla popolazione in questa fascia di età è pari all’11,3%, in diminuzione di 0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente ma in aumento di 0,5 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 42,3%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente ma in aumento di 3,6 punti nel confronto tendenziale.
Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni risulta sostanzialmente stabile sia rispetto al mese precedente, sia rispetto a dodici mesi prima. Il tasso di inattività pari al 36,4%, rimane stabile in termini congiunturali e aumenta di 0,1 punti su base annua. Ricordiamo anche il numero dei giovani “scoraggiati” rilevato periodicamente dall’Ocse, i cosiddetti Neet (Not in education, employment or training), solo nella fascia 15-29 anni: sarebbero oltre i 2 milioni i giovani (più del 20% della popolazione nazionale di riferimento) che non sono iscritti né a scuola, né all’università, né lavorano e nemmeno seguono corsi di formazione o di aggiornamento professionale. Secondo uno studio Eurofound, gli inattivi italiani costano allo Stato 26 miliardi (corrispondente a quota di Pil non prodotta): in poche parole, l’esercito inoperoso dei Neet italiani ipoteca, oltre al proprio futuro, circa 26 miliardi di euro all’anno, pari al 1,7% del Pil, al netto delle mancate tasse, dei costi indiretti in termini di salute e criminalità, oltre che di perdita di competitività sociale.
Oggi è quanto mai evidente che la ripresa dell’occupazione non può prescindere da una riforma strutturale del sistema nel quale operano le imprese, stremato da inefficienze che spesso non permettono a queste ultime, sebbene in presenza di marginalità positive, di poter sopravvivere. Nel 2013 sono andati persi 365 mila posti di lavoro!
Sappiamo che nel lungo periodo, in economia, un’impresa sceglie una tecnologia produttiva tale da permetterle di ottenere un volume di produzione al minimo costo totale: in sintesi, è il rapporto capitale-lavoro a giocare un ruolo fondamentale. Il ruolo della tecnologia, inarrestabile, ha enormemente diminuito l’impiego di lavoro “umano” a fronte di una società occidentale che è preda di un consumismo sempre più spinto e, parallelamente, di una sempre più marcata delocalizzazione produttiva – soprattutto negli ultimi anni – in paesi a basso costo salariale e, evidentemente, privi di quelle tutele alle quali la nostra società è ormai abituata. Si è trasferita, in estrema sintesi, parte della ricchezza in paesi che sono stati a lungo in povertà e che la stanno, a loro volta, ritrasferendo al terzo mondo (si pensi all’Africa, ad esempio). Questo il contesto generale.
Dal lato nostro risulta evidente che, in una fase di crisi strutturale come le nostra, non si crea lavoro intervenendo sulla sola regolamentazione del lavoro: occorre, invece, intervenire in modo radicale sulle imprese. Per riuscirci, citando Schumpeter, occorre cogliere la “distruzione creatrice” del processo di selezione delle imprese: lo Stato dovrebbe saper cogliere per tempo quali settori incentivare, a discapito di altri. Purtroppo siamo “bloccati” al passo prima, ovvero: può esistere un sistema di “imprese” virtuoso in un Paese dove la tassazione è la più alta d’Europa?
La recente indagine Confcommercio ci dice che negli ultimi sei anni le manovre correttive hanno determinato un aggravio di imposta per il sistema economico di 56 miliardi, pari praticamente al 3,5% del Pil. A fine 2012 il livello di tasse locali è lievitato del 5,6% rispetto al 2008, e del 13% rispetto al 2009. E dal ‘90 è stata una vera e propria escalation. Il prelievo è cresciuto nel 2012 del 7,8% sul 2011, e del 650% rispetto al 1990. Dal 2008 al 2013, tra imposte dirette e indirette, il potere d’acquisto delle famiglie si è prosciugato complessivamente per oltre 70 miliardi di euro.
Le politiche fiscali devono tendere a ridare dignità e speranza al nostro sistema industriale, valorizzando le iniziative più virtuose e ridando certezza della tenuta nel tempo della regolamentazione complessiva, così da rimettere in moto la dinamica degli investimenti. Prima di tutto occorre, però, ristabilire il livello di uguaglianza sociale; oggi la disoccupazione pone questa urgenza come prioritaria. Se vogliamo, la crisi nella quale siamo è originata da una sempre più ampia disuguaglianza fra le classi sociali. Oggi stiamo assistendo a timidi tentativi di ridistribuzione del reddito nei confronti della fasce più deboli. È già un inizio…
In collaborazione con www.think-in.it