Proseguono le difficoltà del nostro mercato del lavoro. I dati provvisori di fine marzo sull’occupazione pubblicati ieri dall’Istat parlano chiaro: gli occupati sono 22 milioni 356 mila, in diminuzione dello 0,6% su base annua (-124 mila); il numero di disoccupati, pari a 3 milioni 248 mila, aumenta del 6,4% su base annua (+194 mila); i tasso di disoccupazione è pari al 12,7%, in aumento di 0,7 punti nei dodici mesi. Ancora più “drammatica” la situazione dei giovani tra 15 e 24 anni che raggiungono il numero di 683 mila disoccupati. Il tasso di disoccupazione per i giovani, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 42,7%, sostanzialmente stabile rispetto al mese precedente, ma in aumento di 3,1 punti nel confronto con lo stesso periodo dello scorso anno.
È evidente che i numeri non lasciano dubbi sullo stato di forte crisi del nostro mercato del lavoro, soprattutto se teniamo conto del fatto che la disoccupazione continua a salire da anni e che non mostra segnali di inversione di tendenza. La proposta del Jobs Act del Premier Renzi è la risposta a queste forti criticità?
È difficile dirlo per almeno due motivi. Il primo è che la proposta del disegno di legge presentato è in una fase troppo iniziale. Il secondo riguarda il fatto che nel nostro Paese assistiamo troppo spesso a buone idee, che si modificano sostanzialmente durante l’iter legislativo e hanno fasi molto lunghe (a volte interminabili) di attuazione. Un esempio di questo è certamente rappresentato dagli interventi proposti sulle modifiche alla legge Fornero in materia di contratti a tempo determinato e di apprendistato. La proposta del ministro Poletti sta per essere fortemente modificata nell’iter di approvazione, con la riproposizione di rigidità che rischiano di limitarne significativamente le potenzialità.
È certo che il nostro mercato del lavoro soffre soprattutto per la mancanza di politiche di sviluppo (assenti da troppi anni) e che la sua struttura è bloccata da rigidità normative e organizzative eccessive e inadeguate alla situazione odierna e a cogliere i cambiamenti che lo trasformeranno anche nel prossimo futuro. Possiamo essere sopraffatti dallo sconforto? Abbandoniamo la speranza che le cose possano cambiare?
Ci sono due aspetti che possiamo tutti guardare e segnalare con forza anche a chi oggi ha responsabilità istituzionali e di governo. Il Regno Unito ha avviato interventi strutturali di cambiamento del mercato del lavoro che lo rendono dinamico e certamente più adeguato ai nostri giorni. Trasparenza delle opportunità lavorative, semplicità burocratica, flessibilità in entrata e in uscita e servizi efficienti ed efficaci per le persone e le imprese sono alla base dei fattori di innovazione del mercato del lavoro inglese; mercato sempre più attrattivo e aperto per molti nostri giovani. Così accade anche per altre realtà europee, basti pensare alle sempre più numerose comunità di giovani italiani che si sono spostati a Dublino, a Parigi, a Stoccolma, a Monaco per studiare e lavorare.
Nel dialogo con molti di questi giovani, quello che emerge è che non si tratta innanzitutto di fuga da un Paese che non li sa valorizzare, bensì di cogliere opportunità interessanti a loro offerte. Ed è proprio in questa posizione l’altro fattore di novità che emerge dalla realtà: molti giovani affrontano la sfida posta, non curvati sulle difficoltà, pur presenti, ma con una tensione positiva di ricerca di una risposta ai loro bisogni.
Possiamo ripartire dalla realtà, guardando il cambiamento fatto in alcuni paesi e ciò che fa muovere una posizione di positività di molti nostri giovani, oppure fermarci a discutere di cosa non va. È un problema di scelta: di ciascuno e di chi ha responsabilità istituzionali.