L’allarme che lancia il Rapporto sul Benessere equo e sostenibile 2014, presentato dal Cnel e dall’Istat, è chiaro e inequivocabile: la crisi economica ha determinato una grave contrazione dell’impiego di risorse umane del Paese e un aumento delle disuguaglianze territoriali e generazionali. Nello specifico, il Rapporto sottolinea che “la distanza che separa i tassi di occupazione e di mancata partecipazione italiani da quelli europei (Ue-27), tradizionalmente già molto elevata, si amplia ulteriormente negli ultimi due anni, arrivando nel 2013 a 8,6 punti percentuali per il tasso di occupazione dei 20-64enni”.



In questo contesto, il dramma italiano rimane la forte esclusione dei giovani dal mercato del lavoro. Il tasso di occupazione nella fascia 20-24 anni è al di sotto del 30%, mentre l’indicatore relativo alla mancata partecipazione al lavoro, nella fascia di età 15-24 anni, schizza al 54,9% nel 2013, registrando un +15% rispetto al 2008. Non va di certo meglio alle donne, che fanno registrare un tasso di occupazione intorno al 50%, quasi 15 punti percentuali in meno della rispettiva media Ue-27. I dati relativi all’ancor più deteriore situazione occupazionale del Mezzogiorno confermano l’esistenza di una “frattura” dello stivale per risanare la quale bisogna interrogarsi se per curare malattie diverse valgano ricette universali.



Se la quantità di lavoro scarseggia, la qualità non va di certo meglio. A incidere in negativo sugli aspetti qualitativi è anzitutto l’instabilità e l’incertezza: ben il 91,5% dei lavoratori teme che se dovesse perdere il lavoro sarà difficile ritrovarne uno simile. Il sentimento di insicurezza del lavoro è più diffuso, oltre che tra chi ha un contratto a termine, tra i più giovani e le donne (oltre il 40% ha paura di perdere il lavoro), tra i lavoratori meno istruiti e quelli addetti a mansioni manuali poco qualificate. In sostanza, vuol dire che i più giovani vivono nella paura di perdere il lavoro e gli anziani temono di non ritrovarlo.



Inoltre, cresce il numero di lavoratori con un titolo di studio superiore a quello richiesto dall’attività svolta (il 22,1% degli occupati nel 2013), mentre resta pressoché invariata la quota di occupati con bassa retribuzione o irregolari. Un dato apparentemente positivo è quello relativo alle differenze di genere rispetto alla qualità del lavoro. Ma è solo una “illusione ottica”. Infatti, l’effetto positivo svanisce quando ci si rende conto che la contrazione delle differenze dipende da un peggioramento dei dati relativi alla condizione maschile e non da un miglioramento di quella femminile.

Questa situazione impatta inevitabilmente sulla salute e sul benessere della società. Basta esaminare alcuni significativi dati contenuti nel dominio “salute” del Rapporto che sottolineano come il benessere psicologico è particolarmente compromesso tra le persone in cerca di nuova occupazione e tra coloro che sono in cerca di un primo lavoro.

Insomma, se le cose non cambiano, se il lavoro non torna al centro del dibattito politico ed economico in modo adeguato, l’anno prossimo ci si troverà a discutere i dati di un Rapporto sul “malessere equo e sostenibile”. Non scoraggiamoci però. Si sa che l’età del malessere è passeggera. E non è un caso che nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti del 4 luglio 1776 si citi come diritto inalienabile la “ricerca della felicità”.