Pur di provare a salvare una stagione balneare, quest’anno certamente difficile e anomala dal punto di vista meteorologico, i gestori delle spiagge hanno chiesto a più riprese ai diversi soggetti istituzionalmente responsabili di poter prolungare, al fine di limitare i danni, l’estate anche proponendo di posticipare l’apertura delle scuole. Insomma, si prospetta un bilancio 2014 complicato per uno dei pilastri del nostro “made in Italy” basato su sole, mare e fantasia. Per leggere tali dati, tuttavia, alle bizze di Giove Pluvio, e alla fine delle “mezze stagioni”, si deve aggiungere una riflessione sugli effetti della crisi economica di questi anni e su quanto questa abbia influenzato e inciso sui nostri comportamenti collettivi.



In tal senso sono sicuramente interessanti i dati di un recente studio su come gli americani hanno modificato le loro modalità di ricorso alle ferie. Si pensi, infatti, che secondo tale analisi la quota di lavoratori americani che si prendono una vacanza è ai minimi storici. Se, infatti, nel 1970, circa l’80% degli americani andava almeno una settimana in vacanza ogni anno, oggi tale quota è scesa a poco più della metà.



Meritano, in particolare, attenzione le ragioni più comuni che sono state addotte per giustificare il fatto di non prendersi la meritata (si spera) pausa. Si temono, prima di tutto, le pile di lavoro sulla nostra scrivania che ci attendono al nostro ritorno: nessun altro può, infatti, fare altrettanto bene quello che facciamo noi in ufficio. I ricercatori chiamano questo fenomeno “il complesso del martire”. Allo stesso tempo si deve sottolineare come più del 20% delle persone coinvolte nella ricerca abbia affermato che uno dei motivi principali per cui non sta godendo di tutti i propri giorni di vacanza che gli spetterebbe è perché non vuole apparire, troppo facilmente, sostituibile. Sembra, quindi, emergere come i lavoratori abbiano interiorizzato la percezione, tipica della cultura aziendalistica, per la quale stare lontani dal posto di lavoro, anche per pochi giorni di vacanza (magari in Italia), significa essere cattivi dipendenti.



Tutto ciò si registra sebbene numerose ricerche abbiano dimostrato che i lavoratori che prendono le vacanze, o comunque rompono il ritmo lavoro anche con brevi “sieste” o passeggiate, sono più produttivi quando tornano attivi e che il godimento di vacanze sempre più corte porti a un aumentato rischio di malattie cardiache (equamente sia negli uomini che nelle donne). In questo quadro si sta così sviluppando un interessante dibattito sull’ipotesi, principalmente in alcune grandi aziende, di ridurre la settimana lavorativa a soli 4 giorni.

Sembra evidente, dall’analisi di questi dati, elaborati al di là dell’Atlantico, come le regole, ma anche le prassi dentro le imprese e i comportamenti dei lavoratori, disegnino non solo un modello di regolamentazione contrattuale ma, prima di tutto, rappresentino un modello culturale, sociale e di consumo della collettività in cui agiscono: un’idea del lavoro e della persona che lo svolge.

È questa la grande sfida che si deve porre da settembre il Jobs Act renziano pensando alle giovani generazioni: definire un nuovo modello in grado di rispondere alle difficili sfide del presente. Speriamo che i “gavettoni” di quest’agosto abbiano chiarito le idee e che le vacanze romane siano, finalmente, finite.

 

In collaborazione con www.amicimarcobiagi.com