È di solo pochi giorni fa la pubblicazione del rapporto Istat sull’inserimento professionale dei dottori di ricerca in Italia. Il quadro che emerge è, come sempre nel nostro Paese, un chiaroscuro. Un primo dato è quello occupazionale in senso stretto. Si deve registrare come nel 2014 lavora il 91,5% dei dottori di ricerca che hanno conseguito il titolo quattro anni prima, mentre, con riferimento allo stesso ciclo, è in cerca di un lavoro il 7% del campione osservato. A sei anni dal conseguimento del titolo lavora, addirittura, il 93,3% e cerca un lavoro solamente il 5,4% dei dottori. Ancora, possiamo quindi sostenere, che permane un vantaggio competitivo associato al dottorato di ricerca nel nostro mercato del lavoro.



In termini di inquadramento contrattuale, quindi, lo studio evidenzia che, a sei anni dal conseguimento del titolo, la quota di dottori con un lavoro a termine è pari al 43,7%. Un dato che a quattro anni, altresì, è circa dieci punti percentuali più alto raggiungendo il 53,1%. L’istituto di statistica evidenzia, inoltre, come ben il 73,4% dei dottori che hanno ottenuto il titolo nel 2008, e il 74,4% di quelli che lo hanno fatto nel 2010, operi, come attività professionale, nel campo della ricerca e dello sviluppo. Una quota più bassa si riscontra tra le donne: 3 su 10 sono, infatti, impegnate in attività lavorative per nulla connesse alla ricerca.



In termini “meramente” retributivi, a sei anni dal conseguimento del titolo, i dottori di ricerca percepiscono un reddito netto medio mensile di 1.750 euro, a quattro anni il reddito dei dottori del 2010 si ferma a 1.633 euro. La soddisfazione generale rispetto all’attività lavorativa svolta è, tuttavia, alta: 7,2 punti di media rispetto a un voto massimo pari a 10. Più alta la soddisfazione per l’autonomia e le mansioni svolte, mentre è, ahimè, più contenuta quella per le possibilità di carriera e la sicurezza del lavoro. L’occupazione è, quindi, elevata in tutte le aree disciplinari, ma, ovviamente, in particolare tra i dottori delle Scienze matematiche e informatiche e dell’Ingegneria industriale e dell’informazione.



È interessante notare come la quota di stranieri stia crescendo: dal 2,2% registrato per i giovani che hanno conseguito il titolo nel 2004 si è arrivati, oggi, con quelli del 2010, a un leggermente più significativo, almeno in termini relativi, 6%. Tuttavia, allo stesso tempo, i dottori di ricerca che vivono all’estero sono il 12,9% (+6 punti rispetto allo studio del 2009), in particolare quelli che operano nelle Scienze fisiche (31,5% dei dottori italiani che vivono all’estero) e nelle Scienze matematiche o informatiche (il 22,4%). Si deve, infatti, sottolineare come il reddito percepito da chi vive all’estero è sensibilmente più alto di quello dei dottori che rimangono in Italia: fino a 830 euro in più.

Se, quindi, si registrano miglioramenti, per certi aspetti significativi, per quanto riguarda il settore ricerca e sviluppo nel nostro Paese, molto c’è ancora da fare per divenire un polo di attrazione di capitale umano di qualità e, quindi, di imprese che operano nei segmenti economici a più alta redditività. Un Jobs Act serio e che vuole lasciare un segno tangibile non può limitarsi, infatti, a riscrivere le regole del mercato del lavoro, ma deve prospettare un piano industriale serio e credibile per l’azienda Italia. Questo passa anche, se non necessariamente, da una scommessa significativa su ricerca e innovazione. I dati ci dicono che una base solida da cui partire l’abbiamo, sta ora a noi provare a vincere la scommessa.

 

In collaborazione con www.amicimarcobiagi.com