Dopo una serie di rilevazioni positive, i dati Istat relativi al mese di settembre registrano un calo degli occupati pari allo 0,2%. In termini assoluti corrispondono a 36.000 posti di lavoro persi e riguardano sia i lavoratori dipendenti (-26.000) che i lavoratori indipendenti (-10.000). Anche la distribuzione per sesso e per età si registra equilibrata, segno che è un effetto generalizzato. Può essere dovuto alla chiusura di contratti stagionali legati al periodo estivo e all’occupazione turistica.
L’interpretazione, almeno per una valutazione di breve periodo, è supportata dai dati restanti. Nello stesso mese si registra un calo della disoccupazione dell’1,1% (35.000 unità stimate) e il tasso di disoccupazione prosegue nella discesa con un -0,1% dopo luglio (-0,5%) e agosto (-0,1%). Il dato in crescita è quello degli inattivi, che ha un aumento dello 0,4% (pari a 53.000 unità). Vi è pertanto un effetto (stagionale?) di “ritiro” dal mercato del lavoro che permette di mantenere in crescita il tasso complessivo di occupazione (+ 0,2%).
La lettura stagionale del dato di settembre appare la più realistica, ma non può soddisfare se rapportata alle attese degli effetti duraturi dovuti alla riforma del mercato del lavoro. I dati divulgati indicano ancora un mercato del lavoro molto debole. La ripresa della domanda di lavoro da parte dei diversi settori produttivi non decolla e gli strumenti di flessibilità introdotti con la riforma appaiano timidi e non permettono una decisa ripresa del tasso di occupazione. La centralità del contratto a tempo indeterminato anche a tutela crescente ha portato a sottovalutare alcuni aspetti che mi paiono importanti per le caratteristiche strutturali del nostro sistema produttivo.
Come noto, è solo da una decisa ripresa della produzione e della domanda di beni che ci si può aspettare una crescita dei posti di lavoro disponibili. Date le previsioni di crescita del Pil, che rimangono fra l’1% e il 2% annuo, avremo ancora anni prima di registrare effetti duraturi in termini occupazionali. Per questo, a mio parere, assumono una maggiore importanza quelle misure di flessibilità del mercato del lavoro che rispondono a nicchie di forza lavoro disposta a uscire dall’inattività, ma a condizioni particolari.
Giovani, neet, donne e anziani non sempre chiedono di trovare un lavoro pieno. Altri impegni di studio o famigliari permettono solo impieghi parziali. Tuttora nel nostro Paese, il part time viene ostacolato quando non penalizzato e riguarda una fascia di professioni residuali. Solo nell’ambito della manovra di fine anno, per attutire le mancate decisioni sulla flessibilità in crescita, si è cercato di favorire il tempo parziale per lavoratori in vista del pensionamento.
Nel confronto con i paesi europei che hanno un alto tasso di occupazione emerge in modo evidente come la presenza di occupati a tempo parziale sia fondamentale per assicurare un alto e perdurante tasso di occupazione complessiva. Appare d’altro canto evidente in tutte le ricerche sul mercato del lavoro come la partecipazione attiva al mondo del lavoro abbia per molti un andamento non costante durante le età lavorative. Ritiri per motivi famigliari o per studio o per formazione determinano momenti di distacco o disponibilità parziali.
Avere forme contrattuali che permettano di non uscire completamente dal mercato del lavoro durante questi periodi di vita dà stabilità alla formazione individuale e permette di assicurare un tasso di occupazione molto più alto di quello che registriamo nel nostro Paese. Nel nostro caso specifico agirebbero anche come deterrente alle tante forme di lavoro nero che ancora caratterizzano molte professioni e molte zone del Mezzogiorno. Nell’attuale fase, in attesa di una crescita stabile della domanda di lavoro, assicurerebbero un’occupazione regolare in molti nuovi settori dei servizi (o dei servizi alla persona in modo particolare) che stentano ancora a crescere e ad affermarsi nella società. Darebbero ai tassi di occupazione anche un risultato significativo e di sostegno a quella crescita dei consumi che è perseguita dalle scelte economiche governative per rilanciare l’incremento stabile dell’economia.
Il dato di settembre può pertanto essere visto come uno stimolo a non fermare la riforma del lavoro. Finita la fase delle fondamenta si passi a interventi mirati per dare stabilità all’obiettivo di lavorare di più e meglio.