Arrivano quasi di soppiatto i nuovi dati dell’Istat; cercano di raccontarci che la situazione occupazionale non va proprio tanto male. I malpensanti sosterranno che è un modo per rendere meno evidente la grande distanza tra le aspettative e i risultati concreti ottenuti, dopo tanti annunci fatti di avvenuto cambiamento epocale.
Dopo i dati trionfali di metà anno, usati come riscontro della terapia miracolosa del Jobs Act, ecco che si ritorna alla realtà: per ottenere più posti di lavoro, l’economia deve essere molto più vigorosa. Il Jobs Act è stato un bene, così come gli incentivi per l’occupazione stabile, ma per ottenere risultati significativi dopo anni e anni di erosione della base occupazionale occorrerà molto rigore nelle politiche di fortificazione dei capisaldi delle produzioni di beni e servizi.
Non è bastato per aumentare il numero degli occupati neanche l’abbattimento vigoroso dei contributi sul costo del lavoro a favore delle aziende che hanno assunto lavoratori con rapporto di lavoro, deprivato dell’articolo 18. L’operazione si è rivelata una partita di giro, naturalmente positiva, che ha trasformato una parte dei co.co.pro. e di apprendisti in rapporto di lavoro standard.
Cosicché, l’ultimo dato statistico rassegnato alla pubblica opinione ci dice che il lavoro cosiddetto indipendente si è ridotto, essendo stato in parte assorbito dai contratti a tempo determinato e indeterminato, che sono appena riusciti a compensare le perdite di posti di lavoro. Sono la conseguenza di una situazione economica italiana che volge al peggio.
D’altro canto, gli ultimi dati deludenti del nostro Pil, su cui si erano alimentate soverchie speranze, con la crescita della spesa pubblica non da investimenti, e con la crescita del debito pubblico, non potevano che far presagire peggiori risultati.
Va ricordato che non è bastato a far volgere lo sviluppo al meglio il basso costo del petrolio, che per gli italiani ha un’importanza economica notevole, perché più dipendenti di altri popoli industrializzati da idrocarburi. Neanche è bastato il bassissimo costo del denaro, per investimenti e per lo straripante debito pubblico che pesa come un macigno sulla nostra capacità competitiva.
Dunque la stima Istat dell’ultimo trimestre (-0,5%) e il tasso di disoccupazione sostanzialmente bloccato all’11,5% suonano come rintocchi gravi, che dovrebbero suggerire minori espedienti per sbarcare il lunario del consenso e di dedicarsi con cura e costanza ai fattori strategici della salute economica dell’anemica Italia.