Nei primi due mesi dell’anno vi sono stati oltre 79.000 assunti con contratto a tempo indeterminato: è un incremento del 38% che arriva al 43% per i giovani sotto i 29 anni. Il segnale di una ripresa economica che concede alle imprese una migliore capacità di programmazione è evidente. In molti settori dell’industria la ristrutturazione dovuta alla crisi internazionale viene valutata come conclusa e si torna a un’occupazione cui offrire maggiore stabilità. Anche le filiere produttive di molti distretti di Pmi si sentono più stabili e quindi hanno ripreso ad assumere. Sta ora alla politica economica fornire strumenti di sostegno per l’internazionalizzazione e per l’accesso al credito che permettano alla manifattura italiana di sfruttare pienamente le scelte avviate dalla Bce per sostenere una domanda ancora in fase critica.
Le scelte di politica del lavoro, visti i primi dati del 2015, vanno sicuramente a sostegno di una nuova fase dell’economia e sono state apprezzate dalle imprese come un’utile riforma per cambiare le regole del lavoro. I primi commenti sono però alla ricerca della valutazione statistica del dato: sono nuovi occupati o siamo semplicemente di fronte a un cambio delle forme contrattuali determinato dalle norme del Jobs Act e dagli sgravi di costi previsti nelle norme della Legge di stabilità proprio per sostenere un’occupazione più stabile?
Possiamo realisticamente valutare che di questi circa 80.000 persone, solo 20.000 siano nuovi assunti e i tre quarti rimanenti oggetto di mutamenti contrattuali. Per alcuni commentatori questo dato vorrebbe dire che non siamo in presenza di un cambio di passo, che le riforme sono ininfluenti, anzi se ci fossimo concentrati più su iniziative economiche, lasciando stare le norme del lavoro, sarebbe stato meglio.
Come sanno tutti, è evidente che una ripresa dell’occupazione potrà aversi in modo deciso solo con una ripresa della domanda sia internazionale che interna. Su questo fronte vi è ancora molto da fare e saranno determinanti i prossimi mesi per valutare se si è riusciti a superare la situazione di deflazione da austerity per tornare a una stabile ripresa del Pil.
Nonostante questo assunto di fondo, il dato di un’occupazione che torna a crescere con contratti stabili non deve essere sottovalutato. Il messaggio principale del Jobs Act, e degli strumenti finanziari a suo supporto, era di superare un dualismo di tutele e diritti che era giunto a penalizzare i lavoratori e a rendere inefficiente il funzionamento del mercato del lavoro stesso. A ciò sono destinate le norme del primo provvedimento attuativo di marzo e i prossimi provvedimenti dovranno assicurare un sistema di servizi al lavoro finalizzati a dare efficienza al mercato dando sostegno alla mobilità.
I risultati del primo bimestre quindi sono il primo effetto di norme annunciate ma non ancora operative. Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è applicabile da marzo, ma possiamo dire che ha iniziato a operare prima perché ha reso evidente che la scelta di fondo del disegno riformatore era chiaro e avrebbe sostenuto un cambio di passo nelle regole di fondo del lavoro, favorendo un’estensione delle tutele a sostegno della flessibilità. Insomma, anche in Italia, come l’Europa chiede da tempo, ci si muove per costruire un sistema di flexsicurity.
Il dato del bimestre iniziale ci indica quindi che un numero crescente di lavoratori avrà un lavoro con maggiori tutele. Da contratti che non garantivano sostegno in caso di difficoltà, fosse maternità o malattia o mobilità involontaria, passano ad avere un pacchetto di tutele e diritti che permettono una maggiore stabilità di progetti di vita.
L’entrata in vigore dei nuovi contratti a tutele crescenti dovrebbe quindi sostenere nei prossimi mesi questa tendenza avviata con risultati così eclatanti. Molti settori dei servizi, dove la flessibilità richiesta dal mercato trovava risposta solo con l’uso di contratti non stabili, hanno avviato il processo di mutamento contrattuale e di nuove assunzioni solo con il mese di marzo. Da qui verranno nuovi dati positivi nei prossimi mesi per un passaggio a lavori di qualità e più tutelati.
Questo processo riguarda una fascia marginale dei lavoratori o il dualismo era ormai diffuso? Una recente ricerca sul mercato del lavoro del Veneto valuta che solo il 55% degli occupati a fine 2014 era impiegato in imprese e settori dove valeva l’articolo 18. Il 45% dei lavoratori era al di fuori di questo sistema di tutele o per forma contrattuale applicata o perché occupato in imprese di piccole dimensioni. Superare questo dualismo significa quindi ricreare un unico sistema di tutele che riunifichi un mercato che era già spaccato in due parti quasi equivalenti. Un mercato che era diventato discriminante verso i più giovani che entravano con un sistema contrattuale e di tutela pesantemente svantaggiato rispetto a quello offerto alle generazioni precedenti.
I dati resi noti in questi giorni fanno sperare sul fatto che tale dualismo sia stato messo da parte. Vedremo nei prossimi mesi la capacità e la velocità con cui il sistema Paese riuscirà ad archiviare uno squilibrio di ingiustizie che rendeva il nostro uno dei peggiori mercati del lavoro in Europa.