Il lavoro dipendente, regolato da un contratto, a tempo pieno e magari indeterminato, non è la norma. Lo sottolinea il nuovo rapporto “World Employment and Social Outlook”, curato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, organismo che ha sede a Ginevra e che monitora i dati relativi all’84% circa della manodopera globale. Di questi, i tre quarti non hanno un rapporto di lavoro “tipico”, sono privi di contratto – ben il 60% è rappresentato da lavoratori del settore informale, autonomi o collaboratori di un’attività familiare, spesso non retribuiti -, oppure ne hanno stipulato uno temporaneo. La natura del lavoro, come recita il sottotitolo del rapporto, sta cambiando: tendenza a livello mondiale è quella alla diversificazione delle forme di occupazione, che si fanno sempre più atipiche – un’opportunità, se considerata sotto la prospettiva dell’accesso al mercato del lavoro, ma anche un potenziale volano di disuguaglianza e di incertezza.
Un’incertezza che colpisce soprattutto le donne. La componente femminile della manodopera mondiale continua ad essere minoritaria, solo il 40%; e le donne sono state le principali vittime del rallentamento della crescita occupazionale negli anni della crisi, visto dei 61 milioni di lavoratori che mancano all’appello nel 2014 (rispetto agli occupati attesi in base ai trend precedenti alla crisi) il 73% sono donne. Il gap tra lavoratori uomini e donne è cresciuto in maniera evidente soprattutto nei paesi del sud-est asiatico (in particolare l’India). Ma nel mondo occidentale, fatte le debite differenze, la situazione non è dissimile: se si considerano in generale i paesi sviluppati, i tassi di disoccupazione tra il 2009 e il 2014 sono diminuiti soprattutto per la componente maschile, mentre quella femminile ha segnato il passo, e in Europa – dove nello stesso periodo la disoccupazione è invece cresciuta – questo è avvenuto in misura maggiore per le donne rispetto agli uomini (1,5% VS +1,1%).
In questo contesto, il primato femminile nel lavoro a tempo parziale appare quanto meno ambivalente. Tra il 2009 e il 2013 i posti di lavoro part-time sono aumentati più di quelli a tempo pieno, arrivando a interessare – negli 86 paesi che rappresentano il 65 per cento dell’occupazione mondiale – oltre il 17 per cento delle persone occupate. Di questi, le donne sono il 24 per cento, rispetto al 12,4 per cento di uomini; una prevalenza che si deve anche e soprattutto alla larga diffusione del tempo parziale tra le figure di lavoratori familiari e/o collaboratori domestici, mentre tra i salariati l’incidenza di questa formula è inferiore. Lungi dall’essere indice di una opzione femminile per la conciliazione tra famiglia e lavoro, la maggiore presenza di lavoratrici in part-time è indicativa del genere di attività, spesso poco qualificata, che queste lavoratrici svolgono, ed è spesso frutto di una scelta obbligata, dovuta all’indisponibilità di occupazione a tempo pieno.
Durante la crisi economica, alla perdita di posti di lavoro in full-time ha spesso fatto riscontro l’aumento di posizioni a tempo parziale. Lo stesso dato, a livello nazionale, emerge dal rapporto Istat 2015, presentato il 20 maggio alla Camera dei Deputati: nel nostro paese, l’unica forma di lavoro cresciuta quasi ininterrottamente negli ultimi anni è stata proprio il part time, con un numero di occupati che è aumentato dal 2008 al 2014 di oltre 784 mila unità, fino a raggiungere lo scorso anno la cifra di quattro milioni – il 18% sul totale dei lavoratori. E’ notevole che l’incremento abbia riguardato quasi solo il part time involontario, passato dal 40,2% sul totale degli occupati a orario ridotto nel 2008 al 63,6% nel 2014. Non si tratta più soltanto di giovani, di lavoratori poco qualificati, di residenti al Sud o di immigrati: l’aumento è più generalizzato, sia rispetto alle fasce d’età e di collocazione geografica che rispetto ai settori produttivi.
Il part-time sotto questo rispetto si può accostare ai contratti atipici o temporanei: anch’esso rientra tra le strategie adottate dal mercato del lavoro e dai sistemi di welfare nazionale, in questi difficili anni di crisi, per includere forza lavoro altrimenti inattiva. Questo non significa che si sia necessariamente allontanato dal suo spirito originario: quello di agevolare una altrimenti difficile convivenza tra i tempi della vita e quelli del lavoro. In entrambi i casi, è lecito dubitare che i lavoratori interessati, messi di fronte alla libera scelta, avrebbero optato per la decurtazione del tempo di lavoro – e quindi della retribuzione; ma le scelte sono sempre vincolate dal contesto. Detto altrimenti, se un lavoro a tempo pieno è meglio di uno a tempo parziale, è pur vero che un lavoro a tempo parziale sia meglio che nessun lavoro. Per valutare la misura, occorre quindi tenere conto del contesto: in assenza di crisi, così come di conflitto tra esigenze familiari e lavorative, la valutazione sarebbe probabilmente diversa, ma l’impressione è che non sia – ancora – questo il caso.