L’Istat ha pubblicato ieri la Nota Flash sui dati del mercato del lavoro italiano nel primo trimestre 2015 e nel mese di aprile. La statistica giuslavoristica ai tempi di Renzi è uno dei principali campi di battaglia politica e mediatica. Ecco quindi la pronta esultanza via twitter del Premier: «Dati ISTAT: abbiamo 159mila occupati in più in aprile primo mese pieno di #jobsact. Avanti tutta su riforme: ancora più decisi #lavoltabuona». Solo il giorno prima Susanna Camusso aveva attaccato il Governo su questo stesso tema (i dati del mercato del lavoro) citando la cupa relazione annuale di Banca d’Italia.



Un così ripetuto uso distorto e tendenzioso del dato statistico ed economico ha creato vere e proprie categorie di opinionisti che anche ieri hanno recitato la propria parte: gli “ultras” che annunciano senza timore il miracolo economico e la fine della crisi; i “gufi” che si affrettano a sottolineare la natura congiunturale del dato e quindi la sua inaffidabilità per il futuro; i “benaltristi” che evidenziano prontamente i microdati negativi per attutire la complessiva positività del rapporto.



Lasciando al teatro politico queste maschere, molto più semplicemente va preso atto che i contenuti della comunicazione mensile dell’Istat sono certamente positivi. Non vi sono elementi che dimostrino la tenuta futura di questi primi segnali di ripresa (in ambito lavoro), ma è comunque meglio un provvisorio dato con segno “più” di continui numeri negativi.

In un contesto complessivo quindi migliore di quello dei mesi precedenti (i primi segnali di inversione di tendenza dopo 14 trimestri di continuo peggioramento), vi sono almeno cinque indicatori da osservare con attenzione e che meritano una riflessione più profonda dell’entusiasmo cieco o della opposizione pregiudiziale.



Primo. Nonostante il generosissimo esonero contributivo previsto dalla Legge di stabilità 2015 per gli assunti a tempo indeterminato e le nuove regole sul licenziamento illegittimo (svuotamento dell’articolo 18 – seppur in vigore per meno di un mese del primo trimestre), il numero dei nuovi contratti a tempo determinato è ancora superiore a quello dei contratti a tempo indeterminato, con buona pace dell’anacronistica retorica dello stesso Governo sull’importanza della “stabilità”.

Secondo. Com’era prevedibile, anche i dati certificano la debolezza dell’esonero contributivo e delle regole sul licenziamento nel promuovere l’occupazione delle fasce più deboli, in particolare giovani e lavoratori poco qualificati. Il numero dei disoccupati di lunga durata (da oltre un anno) è infatti crescente: si trova in questa situazione il 57% degli attivi senza lavoro. Questo fenomeno non può essere ignorato (com’è ora) per gli evidenti effetti sociali che potrebbe produrre.

Terzo. A conferma della precedente considerazione sui beneficiari delle prime misure del Jobs Act, si nota che coloro che escono dalla disoccupazione per rientrare nei posti di lavoro sono essenzialmente persone esperte, con precedenti esperienze lavorative. Non giovani e non ex inattivi, quindi, ma profili già più competitivi sul mercato del lavoro.

Quarto. La crescita del numero dei dipendenti è trainata dal settore agricolo (lieve miglioramento anche nei servizi, peggioramento in industria ed edilizia). È un ottimo segnale. Ma è opportuno anche evidenziare la particolarità di questo settore sia per quanto concerne le specificità qualitative dell’occupazione, sia per quanto concerne le vere e proprie regole di diritto del lavoro (esempi: stagionalità, diversi ammortizzatori sociali, livello di istruzione degli operatori ecc.).

Quinto. Anche nel primo trimestre 2015 la crescita degli occupati è trainata dagli over 50. Ciò è dovuto certamente alle riforme pensionistiche, ma anche, ancora una volta, alla conformazione degli incentivi economici e normativi messi in campo dal Governo. Da ultimo, la conferma di questo dato spazza via molta retorica sindacale e politica sui problemi dei lavoratori “anziani” che perdono il lavoro. Problema serio, ma certamente meno grave del dramma della disoccupazione giovanile, che anche questo Governo non sta (per ora) riuscendo a contrastare compiutamente (nel 1° trimestre è diminuito il numero degli occupati 15-34 anni). Centrale in questo senso, ancor più delle riforme del lavoro, sarà l’esito del dibattito sulla Buona Scuola, che è per ora un disegno di legge troppo distante dal parallelo Jobs Act.

Si tratta di cinque “alert” da monitorare anche nei prossimi mesi, se si vuole davvero ricostruire la situazione del mercato del lavoro italiano e quindi mettere in campo interventi utili e non ideologici, indipendentemente dall’inevitabile dialettica tra ultras, gufi e benaltristi.

 

Twitter @EMassagli

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