C’è stato un periodo in cui la discussione sulla sindrome da work alcoholism era molto diffusa. Il periodo dell’esplosione della finanza e del terziario creativo aveva creato personaggi che sprizzavano fascino e ricchezza. L’esplosione della bolla aveva mostrato la debolezza di molte posizioni lavorative, ma soprattutto aveva mostrato che la vita degli yuppies non era tutte rose e fiori. L’orario di lavoro era intensissimo, dall’alba a notte fonda era richiesta una costante freschezza. Disponibilità illimitata e capacità di decisone fredda portano in pochi anni a stress insopportabili. Eppure, se intervistati, la dipendenza totale del lavoro emergeva come una caratteristica diffusa. Alcolismo da lavoro, appunto, come era stato definito.

L’effetto di un lavoro vissuto così sulle relazioni interpersonali ciascuno di noi può immaginarlo. Relazioni durature impossibili, famiglie spiazzate e spezzate, prevalenza di una logica di puro interesse anche negli incontri, nelle amicizie e così via.

Ora un’indagine Ranstad ci rivela che gli italiani, rispetto ai lavoratori degli altri paesi europei, sarebbero in maggioranza affetti da una partecipazione al lavoro di tipo patologico. Oltre 6 italiani su 10, illustra l’indagine svolta da workmonitor, si dichiarano disposti a rinunciare a parte del tempo libero per dedicarsi al loro lavoro. Oltre 10 punti percentuali di differenza rispetto ai lavoratori francesi o tedeschi. Addirittura solo 1 giapponese su 3 approva una scelta del genere. Famosi per il sole, la musica e la poesia ci siamo trasformati in un Paese dove il lavoro assorbe tutte le energie e addirittura non sappiamo più distinguere fra tempo di vita e tempo di lavoro?

Ho l’impressione che i temi posti dal questionario, “ti infastidisce che mentre sei in ferie ti cerchino dall’ufficio”, o temi analoghi, abbiano fatto emergere realtà antropologiche diverse e che non siano banalmente riconducibili all’orario di lavoro.

Cerco di mettere a fuoco il tema italiano. Siamo da molto tempo un Paese di piccole imprese. La cultura del lavoro tuttora prevalente è un impasto di tradizione contadina e artigiana. Solo una minoranza di lavoratori (se non contiamo la Pubblica amministrazione) è impegnata in grandi strutture con un’organizzazione del lavoro improntata a criteri “scientifici”. Prevale una disponibilità e collaborazione, un senso del proprio ruolo, che non accetta schemi e che apre a una disponibilità che va sicuramente oltre il ruolo ricoperto e gli orari previsti. 

Il lavoro è parte integrante della partecipazione a un reticolo di relazioni che forma la propria identità. Tirare una riga netta fra tempo libero e lavoro diventa quindi personalmente difficile. A domanda su come separarli la maggioranza degli italiani ci dice che entra in difficoltà perché “ci tiene” a quello che fa. Si può aggiungere anche una questione specifica che viene dalle distorsioni del nostro mercato del lavoro. Per molti, il posto di lavoro serve per i bollini e la pensione. Se gli si chiede che lavoro fanno rispondono con la professione che esercitano nel tempo libero, come secondo lavoro, regolare o in nero che sia. E questo ci riporta a come si è legati alla propria professionalità e capacità di contribuire a costruire qualcosa.

Con questo quadro non si vuole certo sostenere che non servono regole, forme di partecipazione associata e anche agenzie preposte a colpire abusi da parte di chi si approfitta della situazione. Le trasformazioni in corso pongono però un problema concreto. Abbiamo grandi disponibilità e una propensione al lavoro che non diventano sistema. La produttività del sistema Italia resta molto bassa. Se siamo disposti a sacrificare anche il tempo libero dovremmo riuscire a produrre di più nel tempo di lavoro. Siamo invece inchiodati ancora a un sistema che disperde queste energie. Capaci da grandi slanci di fronte alle sfide, siamo poi a basso regime nella normalità. 

L’Expo in corso a Milano ne è un esempio. Pochi hanno scommesso sulla riuscita. I gufi che sostenevano non sarebbe mai stato aperto in tempo, gli attendisti che non hanno speso una parola di consenso fino a dopo la cerimonia di apertura erano certamente la maggioranza, anche nella classe dirigente cittadina. Eppure l’impegno di tutti i lavoratori coinvolti a ogni livello ci ha consegnato in tempo un evento che ha rilanciato l’immagine di Milano e dell’Italia nel mondo. Tutto funziona e le nuove tecnologie hanno permesso di dare tutti i supporti conoscitivi necessari. Se però un ospite deve chiedere un documento e si rivolge agli uffici pubblici, torna un secolo indietro. Questo illustra meglio di tanti saggi il gap che dovremmo chiudere. Il contrasto evidente fra le capacità immerse in un evento e la quotidianità. 

Chiudere questo divario darebbe al sistema-Paese un impulso enorme di capacità produttiva e valorizzerebbe le capacità lavorative diffuse. Offrire le opportunità per sviluppare una nuova produttività deve essere una linea costante da parte di tutte le istituzioni.

Non si può obbligare nessuno ad amare il lavoro quanto lo amiamo noi. Ma non possiamo permetterci di disperdere la disponibilità che vi è di mettersi al servizio degli altri e di perdere una cultura e un’educazione al lavoro che ci rendono unici.