A distanza di pochi giorni, Istat e ministero del Lavoro hanno dato una lettura flash dei dati relativi al primo semestre dell’anno in corso. Giova ricordare che confrontiamo numeri provenienti da fonti diverse. I dati del ministero, basati sulle comunicazioni obbligatorie, sono reali ma registrano solo i movimenti (entrate-cessazioni) di nuovi contratti. Quelli Istat sono di fonte statistica e misurano le variazioni complessive dei grandi aggregati che descrivono lo stato del mercato del lavoro.
I dati Istat relativi al confronto giugno 2014-giugno 2015 ci dicono che la crisi occupazionale permane. Il tasso rimane invariato al 55,8%, ma l’occupazione cala dello 0,2% che corrisponde a circa 40.000 unità in meno. Nel semestre abbiamo avuto una crescita di occupati nel corso dei primi mesi dell’anno fino al dato eccezionale di aprile (+0,6%), ma poi un calo che si conferma (-0,2%) nell’ultimo mese. I disoccupati a distanza di 12 mesi sono aumentati del 2,7% (circa 85.000 persone), con un tasso cresciuto dello 0,3% arrivando al 12,7%.
Sia il tasso di occupazione che quello di disoccupazione sono crescenti nel corso degli ultimi mesi. Questo è il risultato della pressione sul mercato del lavoro di un numero maggiore di persone. Il dato degli inattivi, coloro che non facevano nulla per cercare lavoro, è infatti in costante discesa. Come si sa dalla letteratura economica, il primo effetto della crisi è quello di spingere molte persone a ritirarsi dal mercato del lavoro. Il prolungarsi delle difficoltà economiche porta però dopo un po’ di tempo molti di loro a tornare a proporsi sul mercato. Da qui la crescita di tutti i dati sia di occupati che disoccupati e l’indicazione che il tessuto produttivo non si sta ampliando e non riassorbe quanti vorrebbero tornare ad avere un’occupazione.
I dati del ministero ci indicano invece l’effetto della riforma dei contratti di lavoro registrati nelle nuove assunzioni. Anche nel giugno corrente il contratto a tempo indeterminato mostra una costante crescita (erano il 13,5% dei nuovi contratti al giugno 2014 e sono arrivati al 17,7% nell’anno in corso, che corrispondono a circa 37.000 persone in numero assoluto), mentre calano quelli a tempo determinato (restano sempre oltre il 65% del totale dei nuovi contratti) e anche le altre forme contrattuali di collaborazione e di apprendistato.
Il dato assoluto, anche scomposto per sesso, non presenta variazioni significative. Il tempo indeterminato cresce sia per gli uomini che per le donne, mentre calano le altre forme contrattuali. Si tratta ovviamente del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti introdotto dalla nuova normativa e che gode di un significativo bonus economico per le imprese. In ogni caso l’obiettivo di puntare alla crescita di tutele contrattuali di migliore qualità è per ora stabile e può cambiare, nei tre anni di applicazione degli incentivi economici, la struttura dei contratti caratterizzanti il nostro mercato del lavoro.
Se crescono i contratti di qualità non cresce però il lavoro. La capacità di ripresa economica si scontra con troppe strozzature del nostro sistema. Le riforme avranno anche successo, ma senza ripresa di investimenti e produttività non usciremo da un trend di crescita troppo lento per poter riassorbire la disoccupazione.
La previsione di vulgata del Fmi che indica in 20 anni il tempo necessario per l’Italia affinché recuperi l’occupazione precedente alla crisi ha fatto da sfondo ai dati illustrati da Istat e Ministero. È certamente una previsione pessimistica, che non tiene conto degli effetti delle riforme introdotte e di quelle in corso di approvazione. Ma non è riducendo da 20 a 5 anni la previsione che si può trarre ottimismo. Senza abbinare subito al Jobs Act riforma del fisco, della Pubblica amministrazione e contratti aziendali e territoriali per una crescita della produttività non avremo la spinta che la Spagna (Paese che vive problematiche simili alle nostre) è riuscita ad imprimere alla crescita del Pil. È indispensabile che le forze produttive del Paese siano messe in condizione di tornare a investire. Troppe iniziative parlano invece di un Paese che non riesce a essere di sostegno per chi vuole sviluppare le proprie attività. Da Taranto alla Liguria si attuano provvedimenti di blocco alle imprese senza mai tenere conto delle conseguenze sociali. Si muore di troppe regole e di incertezze nelle regole. Poche e precise responsabilità nel rispetto delle regole, ma meno sistemi concessori che lasciano la scelta a organismi irresponsabili deve essere la base per una riforma che premi chi può e vuole creare sviluppo e lavoro.
Il mercato del lavoro ci presenta il conto dei permanenti squilibri del Paese. La partecipazione al lavoro di uomini e donne è ancora troppo squilibrata e nel Mezzogiorno è ancora più accentuata. Tutto il Sud rischia di scivolare sotto una soglia di sviluppo che renderebbero la ripresa e la capacità di creare lavoro un’impresa impossibile. Vi è bisogno di un piano di investimenti pubblici e privati straordinario. Ma si deve partire dalla piena responsabilità di tutti i soggetti.
Più libertà e meno oneri per le imprese che investono, le regioni scelgono di delegiferare e non intromettersi nelle decisioni attuative ma prendano il ruolo di promotori e verificatori. Senza un grande cambiamento di mentalità, senza scegliere di dare più libertà alla società non riusciremo a sostenere la speranza di chi ancora ha voglia e volontà di sviluppare impresa e lavoro.