L’Istat ha pubblicato ieri i dati relativi al mercato del lavoro per il primo semestre del 2015. Dopo i pasticci e le polemiche seguite alla pubblicazione dei numeri del ministero del Lavoro durante l’estate è bene precisare subito la portata statistica dei dati in oggetto, che sono come sempre risultato di rilevazioni statistiche e quindi soggetti a possibili variazioni dovute a mutamenti della metodologia, soffrono particolarmente se presi per brevi periodi, indicano valori assoluti talvolta diversi dai dati rilevati dalle registrazioni amministrative.
Le analisi semestrali sono però ormai da tempo consolidate nella metodologia e rientrano nelle verifiche periodiche dei dati su cui si basa la contabilità nazionale. Sono pertanto la verifica credibile (per noi e per i partner internazionali) per appurare, per esempio, che le ipotesi poste alla base dei piani economici trovino riscontro nella realtà.
Questa premessa tecnica serve a indicare che se i numeri assoluti possono essere “arrotondamenti” statistici, è il segno e il valore delle variazioni che ci indica il senso di marcia della nostra economia.
I dati riferiti al secondo trimestre del 2015 ci confermano un mercato del lavoro con un’evoluzione positiva. L’occupazione aumenta dello 0,3% al netto delle stagionalità e ciò porta il tasso di crescita annua all’1,1%. Il tasso di occupazione cresce nel trimestre dello 0,3% e rimane, dopo periodi con situazioni ben diverse, superiore all’aumento dello 0,1% che registra anche il tasso di disoccupazione. Il ritorno alla crescita stabile della domanda di lavoro porta alcuni inattivi a tornare sul mercato per cercare nuova occupazione. Possiamo tradurlo in un indicatore di ritorno della speranza per chi aveva rinunciato anche a cercare lavoro.
I dati però più significativi per valutare che è in atto una ripresa più generalizzata vengono dal confronto con la situazione registrata un anno prima. Gli occupati mostrano una crescita dello 0,8%, aumenta dello 0,6% il tasso di occupazione, si ferma la crescita dei disoccupati e il tasso di disoccupazione scende dello 0,1%. Registriamo così l’inversione del tasso di inattività che scende dello 0,6%. Gli occupati crescono dell’1,1% come lavoratori dipendenti, mentre si registra su base annua un calo (-0,1%) dei lavoratori indipendenti.
A segnalare che tale ripresa è legata a un aumento della produzione sono anche gli indicatori di merito. La domanda di lavoratori in somministrazione cresce del 18% rispetto all’anno precedente, crescono le ore lavorate (+ 2%) e le ore lavorate per dipendente (+1,4%). A fronte di ciò vi è un calo delle ore di cassa integrazione dell’11,5%. A contribuire a questa ripresa dell’occupazione e della produzione sono tutti i settori economici. I principali sono però il settore dei servizi e delle costruzioni che si aggiungono così ai settori dell’industria che nel corso della crisi avevano retto grazie alla capacità di crescita sui mercati internazionali.
La ripresa costruisce anche una crescita dei redditi da lavoro, che registrano un +1,1% che porta le retribuzioni di fatto a crescere più del tasso di inflazione. Per finire va detto che tutti i dati positivi portano a una crescita del Pil dello 0,3% su base annua.
Vista la carrellata di dati positivi possiamo dire che i gufi sono zittiti dai fatti e che la ripresa è certamente avviata? Per fare profusioni di fede i dati sono ancora troppo deboli. O meglio indicano che qualcosa è stato fatto e il mercato ha recepito le riforme compiute, ma alcuni temi di sostegno dello sviluppo restano da affrontare.
Il Jobs Act ha dato sicuramente un impulso forte nello sbloccare un mercato del lavoro che era immobile e ha nel contempo favorito contratti con più tutele e maggiore stabilità. Le imprese, di fronte a una prospettiva di crescita, hanno ripreso ad assumere anche a tempo indeterminato. È in crescita anche la produttività, ma con tassi ancora così bassi da non incidere su un sistema che nel complesso ha bisogno di un salto per recuperare gli anni della crisi. Per ottenere ciò servono nuove riforme. Da questi dati restano quindi confermati tre problemi che attendono uno scossone paragonabile al Jobs Act per il mercato del lavoro.
In primo luogo la riforma della Pa. Meno intermediazione pubblica e più efficienza dei servizi. È essenziale per una ripresa della produttività sistemica e perché la spending review non sia solo risparmio ma anche una nuova fase di liberalizzazione di mercati. La seconda questione è la diminuzione del peso fiscale. La crescita delle retribuzioni di fatto è superiore all’inflazione, ma è al lordo dei prelievi fiscali e non è quindi traducibile in una disponibilità di reddito reale. Diminuire il carico fiscale e dare certezza della durata è essenziale per famiglie e imprese al fine di rilanciare consumi e investimenti.
Terzo tema è il grande sostegno di investimenti pubblici che va fatto al Sud. La ripresa occupazionale segue un risultato positivo anche nel Mezzogiorno. Dare sostegno a ciò che si sta muovendo chiede investimenti di modernizzazione infrastrutturale e la rottura del sistema clientelare togliendo alla Pa il ruolo di intermediazione esercitato finora.
I dati positivi devono spronare tutti a guardare cosa manca perché non possiamo fermarci, gli allori sono ancora pochi per poter dire che la svolta è già conclusa.