Il nuovo anno è cominciato bene per le statistiche sul lavoro. Ieri l’Istat ha comunicato sia una crescita del tasso di occupazione di 0,1 punti, che una diminuzione della disoccupazione complessiva e giovanile di 0,5 e 1,5 punti (dati riferiti al mese di novembre 2015). Come hanno evidenziato i media, si tratta del tasso di disoccupazione più basso registrato negli ultimi tre anni. Questi risultati possono spiegarsi con argomentazioni molto diverse, anche contradditorie tra loro.
Nei prossimi giorni si sprecheranno i commenti critici dei detrattori a prescindere, come quelli entusiasti dei tifosi acritici. In questa sede, senza sentire il bisogno di schierarsi con uno dei due fronti, è opportuno provare a far derivare dai numeri pubblicati dall’Istat almeno tre considerazioni.
Prima. La massiccia opera riformatrice del Jobs Act e, soprattutto, il generoso esonero contributivo per i nuovi assunti a tempo indeterminato stanziato con la Legge di stabilità dello scorso anno (e rinnovato anche quest’anno, ma con importo sostanziosamente più basso e minore durata) sta raccogliendo qualche risultato concreto. Come previsto, i dati riferiti ai mesi di novembre e dicembre sono (e saranno) positivi: l’entrata in vigore di tutti gli otto decreti delegati del Jobs Act e l’annunciato termine della decontribuzione hanno convinto molte imprese ad anticipare le assunzioni considerate certe e programmate per i mesi successivi. Una scelta che può comportare un risparmio fino al 60% di quanto si sarebbe speso (in contribuzione) assumendo dopo il primo gennaio.
Non è una colpa della legge, questa, anzi, era proprio il suo scopo, costato circa 15 miliardi alle casse dello Stato: incoraggiare maggiori assunzioni “stabili” (per quanto senza più articolo 18). Che buona parte di questi nuovi contratti sia una trasformazione di precedenti contratti “precari” si desume dall’incremento tendenziale dell’occupazione dipendente (+1,5%) contestuale alla diminuzione di quella autonoma (-0,7%), benché rimanga ancora molto alta la quota dei contratti a termine, cresciuti in un anno del 4,5%, nonostante la direzione esplicita del Jobs Act fosse di senso contrario. Il saldo complessivo, comunque, se si osserva l’intervallo tra i mesi di novembre 2014 e novembre 2015, è positivo (+206.000 occupati) e questa non può che essere letta come una buona notizia.
Seconda. Come sempre, non è tutto oro quel che luccica. Desta più di qualche preoccupazione la crescita degli inattivi, ovvero di coloro che non sono né occupati né disoccupati, ossia non cercano attivamente un lavoro. Queste persone non rientrano nelle forze di lavoro e quindi non appaiono nelle statistiche sulla disoccupazione. Detto in altri termini: circa un terzo dei disoccupati diminuiti non è un nuovo lavoratore, ma un nuovo inattivo. Questo stato è solitamente indicatore di scoraggiamento, ovvero di una situazione di disillusione circa la possibilità di trovare effettivamente un lavoro. Com’è evidente, si tratta di una posizione socialmente rischiosa e da contrastare con forza, poiché tanto più è lungo il periodo di non-lavoro, tanto più sarà difficile trovare una nuova occupazione.
Terza. Invero il fenomeno appena descritto è un rischio che il Governo appare voler coscientemente correre. Le riforme approvate, infatti, si concentrano sull’accompagnamento al lavoro delle persone più occupabili. D’altra parte, se uno dei principali obiettivi politici è la comunicazione di dati positivi, per testimoniare un “cambio verso”, è più facile e meno dispendioso occupare (o stabilizzare) tutti gli occupabili piuttosto che concentrarsi sulle persone meno qualificate, inesperte, più anziane, che non sanno la lingua italiana, ecc. Anche questo appare nelle statistiche. Le donne diventate inattive nel corso dell’ultimo anno sono quasi 12 volte di più di quelle che hanno trovato occupazione, spiegando per oltre la metà dei casi la minore disoccupazione femminile. Nella fascia di età 25-34 i nuovi inattivi sono di più degli “ex disoccupati” e anche il tasso di occupazione annuo è negativo. Il tasso di inattività è cresciuto anche nella fascia di popolazione precedente, 15-24 (quindi sia tra i neolaureati che tra i neodiplomati).
Altre pubblicazioni dell’Istat misurano che oltre la metà dei disoccupati è da considerarsi “di lunga durata” (ovvero coloro che non trovano lavoro da più di un anno) e certificano che il tasso di occupazione degli stranieri durante la crisi è diminuito il doppio rispetto a quello degli italiani. Donne, giovani, scoraggiati, stranieri: sono tra le categorie più colpite dalla crisi, ma anche tra quelle meno considerate dalle recenti politiche del lavoro, che, per essere di facile attuazione e risultato immediato, hanno messo in campo soluzioni uguali per tutti, orizzontali negli importi e nel funzionamento, facendo perdere a questa particolare popolazione il proprio, vero, fattore competitivo, ossia il minor costo.
Le misure contenute nella Legge di stabilità 2016 procedono in questa stessa direzione. Strada facendo, però, sarà necessario intervenire anche con misure selettive e rivolte ai più deboli, se non si vuole volontariamente incoraggiare la (preoccupante) deriva descritta da buona parte delle istituzioni internazionali, ovvero un mondo sempre più polarizzato su una fascia alta, qualificata, creativa e ricca, e una fascia bassa con livelli di istruzione minimi, mansioni ripetitive e stipendi modesti.
@EMassagli