Gli ultimi dati di queste ore, rassegnati dall’Istat su occupazione e disoccupazione, ancora una volta segnalano una situazione stagnante. Abbiamo 13 mila unità occupate (+0,1%), ma la maggior parte appartengono alla generazione prossima alla pensione, costretti a lavorare a causa della legge Fornero. La disoccupazione rimarrebbe al palo con l’11,4%. I giovani di età compresa tra i 15 anni e i 24 anni assottiglierebbero il dato dei senza lavoro (con -0,4%), ma nel contempo aumentano coloro che sono inattivi. Va detto che i dati riferiti ai giovani somigliano ai numeri della lotteria: tutti sanno che in Italia sono rarissimi i casi di chi inizia a lavorare prima dei 24-25 anni. Insomma, anche la scienza statistica può piegarsi alla esigenza di presentare il bicchiere mezzo pieno anziché mezzo vuoto per far contento chi governa, ma la sostanza della difficoltà di trovare un lavoro non cambia.

Resta il fatto che nonostante il Jobs Act e gli incentivi di sostegno per le assunzioni, il mercato del lavoro è in grande sofferenza a causa della stantia economia che non evolve dalla situazione di precarietà in cui si trova oramai da ben 8 anni. Il tema occupazione è l’argomento più sensibile per gli italiani. Nel corso degli anni interminabili della crisi economica, la falce della disoccupazione ha mietuto tanti posti di lavoro e ha alimentato un cupo malumore che non aiuta a raccogliere le energie per incamminarsi verso una stagione nuova che ci consenta di conservare e sviluppare i nostri spazi nei mercati globali.

In tutti i sondaggi importanti che si commissionano per capire l’umore delle persone, campeggia sempre al primo posto il desiderio di trovare un lavoro e di allontanare la preoccupazione di perderlo da parte di chi ce l’ha. Partendo da questa importante sensibilità collettiva, i vari governi succedutisi in questi ultimi anni, in cerca spasmodica di consenso, si sono affannati a dimostrare che qualcosa lo stavano facendo. Ma come succede nella “civiltà” della comunicazione, più che prospettare soluzioni di correzione concretamente legate ai fattori di svantaggio competitivo accumulati nel tempo a danno delle nostre produzioni e beni, ci si è limitati con possente – questo sì – impegno mediatico a prospettare soluzioni miracolose attraverso la modifica delle norme che regolano i rapporti di lavoro e incentivi fiscali per le nuove assunzioni. 

Sia ben chiaro, spesse volte le soluzioni che si trovano vanno bene, modernizzano il mercato del lavoro nostrano, comunque sempre in ritardo rispetto alle esigenze di rapidità ed efficacia necessarie per sostenere le commesse di beni provenienti dai mercati globali. Ma nuovi posti di lavoro possono nascere solo se risulta conveniente investire in Italia. Dai nuovi investimenti di capitali stranieri e nazionali dipendono le sorti dell’occupazione aggiuntiva.

Ma i capitali si dirigono verso paesi fertili per l’impresa: vogliono essenzialmente tasse ridotte; certezza del diritto; energia a basso costo; relazioni industriali collaborative. Ma, ahinoi, non ci siamo! Per questa ragione i dati relativi alla salute dell’occupazione, nonostante gli incentivi per i nuovi assunti, la sterilizzazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, il Jobs Act e altri provvedimenti e provvidenze, non riescono a garantire un risultato apprezzabile, nonostante la propaganda.