I voucher per lavoro accessorio od occasionale sono stati introdotti nel 2003. La loro applicazione è stata poi regolamentata solo nel 2008 con un’iniziativa finalizzata all’uso per la vendemmia di quell’anno e forti limitazioni in settori diversi da agricoltura e lavori domestici. Da poco l’Inps ha pubblicato un’analisi dei dati amministrativi sull’uso dei voucher fra il 2008 e il 30 giugno 2016. Nel corso di questi anni è mutato il valore economico del voucher e la sua regolamentazione. Si è proceduto a una costante apertura dei settori coinvolti e, con l’intervento Fornero, il valore del voucher a 10 euro è stato stabilito come minimo per ora di lavoro. Dei 10 euro, solo 7,50 sono destinati al lavoratore e 2,50 sono per quota Inps e Inail.
Oggi possono utilizzare i voucher tutti i settori economici e per il lavoratore sono esenti da denuncia fiscale fino a 7.000 euro annui, ma non più di 2.000 euro possono derivare dallo stesso committente. La liberalizzazione, o meglio la facilitazione all’uso, ha riguardato anche i punti di acquisto/incasso. Dalla sola Inps oggi è possibile utilizzare anche i tabaccai e una serie di banche di territorio a partire dalle popolari.
L’insieme di questi provvedimenti ha comportato una crescita esponenziale nell’uso dei voucher come strumento per il lavoro accessorio (l’occasionalità non è più prevista). In termini di numeri assoluti i voucher sono passati dai 500.000 utilizzati nei 4 mesi del 2008 ai 115 milioni del 2015. Nel 2011, dopo la prima parziale apertura all’uso dei voucher, erano 15 milioni. I dati salienti del 2015 vedono coinvolte 472.000 imprese (o meglio committenti di lavoro) per un totale di 1.400.000 lavoratori interessati e un valore complessivo di 1,15 miliardi di euro.
I dati forniti dall’Inps per la prima volta con elaborazioni verticali e orizzontali dei risultati, oltre ad alcuni approfondimenti su mercato del lavoro locale, permettono di affrontare i temi che sono sorti con i risultati eccezionali della diffusione dei voucher registrati nell’ultimo anno. Da più parti è stato richiamato il rischio che essi cannibalizzino altre forme contrattuali o che siano una copertura (e non un antidoto) al lavoro nero. Sulla base dei dati pubblicati è possibile intanto misurare il peso del lavoro accessorio sull’insieme del mercato del lavoro. In termini di numero di lavoratori, i “voucheristi” rappresentano nel 2015 l’8,8% del totale dei lavoratori dipendenti. In termini di costo del lavoro complessivo rappresentano però solo lo 0,23% del costo del lavoro totale. La regione che primeggia è la Sardegna, con un 15% come peso fra i lavoratori e lo 0,53% in termini di costo del lavoro. Anche se per il 40% i voucher sono utilizzati fra Lombardia, Emilia e Veneto. La spiegazione dei due dati viene dal fatto che la media pro capite di voucher incassati è di 60 tagliandi annui.
Ben l’81% dei voucheristi ha un solo committente e il 14% due o più. Solo il 30% è presente per più anni, mentre il 70% opera una solo esperienza. La media di incasso è di 3,3 voucher per giornata. Analizzando in dettaglio, 430.000 lavoratori incassano 2 voucher per giornata lavorata (qui può esserci elusione oraria), 300.000 fra 2 e 4, 390.000 fra 4 e 10 e 250.000 incassano oltre 10 voucher per giornata. Va sottolineato che ben 100.000 incassano 20 voucher per giornata lavorativa, segnalando che, anche per professioni di alto costo, è stato introdotto l’uso del lavoro accessorio.
Sul totale delle imprese con lavoratori dipendenti quelle che usano lavoro accessorio rappresentano il 13,9% del totale del costo del lavoro e il peso del lavoro accessorio è l’1,2%. In termini di settori economici, alberghi, ristoranti e commercio sono i maggiori utilizzatori. Il 39% delle imprese che usano lavoro accessorio è in tali settori. In termini di peso economico, il lavoro accessorio è il 3,4% del costo complessivo del lavoro. Per la provincia di Milano alberghi e ristoranti e servizi alle imprese rappresentano ben i due terzi delle imprese che utilizzano il lavoro accessorio.
Fotografando il popolo dei voucheristi del 2015 risulta che, al netto dei pensionati, il 50% risulta composto da inattivi. Il fatto che non abbiano altra iscrizione a fondi ci permette di dire che donne e giovani che non cercano ancora un lavoro stabile e pensionati rappresentano la maggioranza di coloro che attraverso il lavoro accessorio entrano nel mercato del lavoro per un breve periodo nel corso dell’anno. I lavoratori rimanenti hanno alle spalle o successivamente un diverso contratto di lavoro dipendente. Un approfondimento fatto sull’area costiera del Veneto mostra chiaramente come il lavoro accessorio sia usato per lavoratori con contratto stagionale per eventuali periodi di anticipo o soprattutto per code rispetto al contratto principale (il settore prevalente è qui quello dei servizi turistici).
Venendo ai dubbi e alle critiche che sono state avanzate al contratto per lavori accessori è possibile quindi trarre alcune conclusioni. Certo l’ottimo sarebbe avere un sistema di contratti articolati in modo da fotografare tutte le diverse realtà che si presentano nel sistema produttivo ed estendere le tutele del lavoro a ogni specifica forma contrattuale. Ciò almeno per chi ritiene che non vi sia una sola forma contrattuale capace di garantire tutele e diritti, perché la domanda di flessibilità è insita sia nei continui cambiamenti del sistema di produzione, ma anche nell’evolversi sociale dei costumi dell’offerta di lavoro.
In ogni caso il rapporto diffusione dei voucher-lavoro nero non appare misurabile dai dati resi noti. Le restrizioni previste dal dibattito in corso permetteranno di controllare denunce di avvio al lavoro accessorio con maggiore severità. Se con il lavoro accessorio si copre solo parte della prestazione lavorativa ciò non è ovviamente rilevabile. Certo la diffusione è dovuta più alla semplificazione e all’abbattimento dei costi burocratici che non (almeno in assenza di nero) al costo del lavoro.
Peraltro a ricorrere al lavoro accessorio sono state solo marginalmente le famiglie. Imprese e lavoratori autonomi sono oltre il 90% dei datori di lavoro. Sotto il 3% sono anche i lavoratori in secondo lavoro e il lavoro accessorio non ha cannibalizzato altri contratti, ma è stata la risposta a una esigenza lasciata scoperta dall’abolizione del lavoro intermittente. Nel complesso rappresenta quindi sia in termini di domanda che di offerta di lavoro una quota di flessibilità che non sarebbe altrimenti regolarizzata.
Prima di mettere mano a un’esperienza virtuosa sarà bene vedere quali altri contratti, come il part-time, agevolare per copiare dai paesi che hanno un alto tasso di occupazione, ossia per dare più occasioni di lavoro a chi ne necessita.