I dati riferiti agli italiani che decidono di vivere in altri paesi del mondo elaborati dalla Fondazione Migrantes della Conferenza episcopale italiana suscitano ancora una volta un dibattito lacerante e si collegano ai tanti disordini e mali della società italiana: condizione che alimenta acre e mesta sfiducia in noi stessi. In più di centomila si sono registrati all’Anagrafe italiani all’estero, superando e di tanto il numero dell’anno scorso. Quasi la metà – come sempre capita nelle migrazioni – sono giovanissimi. Ormai più di un italiano su dieci risiede all’estero, dato che segnala un malessere profondo che mina la stabilità del nostro futuro.
In questi ultimi mesi, anche i dati riferiti all’andamento demografico sono pessimi, paragonabili solo a quelli del 1919 dopo la Grande Guerra con seicentomila morti e in presenza della pandemia “la spagnola” che mieté milioni di vittime in tutta Europa. Siamo situati certamente in uno snodo epocale molto particolare e gravido di conseguenze, ma non sembra che le nostre elites se ne rendano conto.
Gli italiani sono per indole cosmopoliti; sono il prodotto del crogiolo di millenni di usanze, culture, razze di popoli transitati nelle prospere isole e penisola italiche. Questo imprinting delle origini ha ben predisposto in ogni epoca la ricerca di nuove esperienze in altre terre. In tempi poi di povertà, l’esodo biblico verso le americhe e in nord Africa, come quelle successive alla’Unità d’Italia – a causa della guerra civile meridionale – e quella successiva al fascismo ancora nel “nuovo mondo”, in Australia e nelle aree ricche d’Europa, hanno man mano impoverito di energie la nostra comunità nazionale.
Anche questo è tempo di svuotamento drammatico delle nostre energie a causa di un rimescolamento di elementi economici e politici procurati dalla globalizzazione, dalla rivoluzione digitale, ma anche da crisi morale e spirituale profonda che ha portato il Paese all’immobilità e al degrado pressoché in ogni attività civile e a una forte percezione di impotenza. Il problema ovviamente non è trasferirsi per lavoro o studi, cosa auspicabile per crescere personalmente e professionalmente. Il tema cruciale è se le energie umane che fanno esperienze altrove possano poi fecondare in un tempo successivo la loro terra di origine.
Questi aspetti pongono interrogativi enormi alla classe dirigente: non stanno considerando i nuovi fattori di competizione nella nuova divisione internazionale del lavoro; non stanno affrontando i punti di impatto del digitale sulle attività di produzione, dell’istruzione e formazione, della Pubblica amministrazione; non si stanno ponendo i nuovi problemi della democrazia e della vicenda annosa dell’Europa politica.
È urgente dare segnali in queste direzioni, per suscitare nuova vitalità; popoli senza orizzonti declinano è facilmente cadono nel degrado. Occorre fare presto non solo per il bene professionale ed economico dei giovani, ma anche per sottrarre la comunità alla morsa del populismo che prospera sul prodotto del degrado, ma non sa dare prospettive positive se non quelle fuorvianti del ribellismo sterile.
Uscire dalla condizione concomitante di forte emigrazione di giovani, di sensibile decremento delle nascite, di aumento costante di anziani che peraltro emigrano anch’essi per racimolare qualche centinaio di euro in più per tassazioni più clementi di altri paesi europei, significa fare un vero check up sui gap del Paese. Vuol dire che è venuto il tempo dello sforzo collettivo ancorato a una visione più concreta del da farsi, senza inseguire miracoli. Persuadersi che non è questo il tempo di crogiolarsi sui successi passati e di aver paura di affrontare nuove sfide. Diversamente continueremo ad assistere alla perdita delle energie vitali per emigrazione e per contrazione delle nascite; sarà inevitabile il ritorno ai tempi più bui dell’uscita dal novero delle nazioni sviluppate e conseguentemente dal benessere.