È stata recentemente presentata la prima ricerca sui neet, giovani che non sono impegnati negli studi né stanno cercando lavoro, basata su un numero cospicuo di 15-29enni italiani. Dai dati presentati emergono molte possibili riflessioni. Una quota di “bamboccioni” esiste. Vivono in famiglia, non ambiscono ad andarsene e sono disposti ad accettare un lavoro solo se corrisponde alle loro aspettative. Più che bamboccioni applicano la regola di Bertoldo che chiedeva sì di essere punito, ma si riservava il diritto di scegliere lui come, e non riusciva a trovare la soluzione.
Emergono anche due gruppi che sono riferibili a carenze del sistema di welfare e workfare, ossia dei servizi alla persona. Ci sono infatti le donne con prole che, in assenza di servizi per l’infanzia, non riescono a trovare un lavoro conciliabile con l’impegno materno. E poi gli scoraggiati, che hanno titoli di studio, sono disponibili anche a lavori non corrispondenti al titolo, ma dopo un periodo di inutile ricerca hanno gettato la spugna e non cercano più. In questi casi, servizi al lavoro capaci di personalizzare i percorsi possono fare molto e rimettere in gioco le persone. L’esperienza di Garanzia giovani, pur con i molti limiti attuativi che sta registrando, è servita a rimettere in moto un significativo numero di giovani in esperienze che potranno rimetterli in attività sul mercato del lavoro.
Il numero di neet rilevato dall’indagine è molto alto. Soprattutto è significativamente più alto (oltre il 50%) della media europea e molto più alto di quanto avviene nei paesi con analogo tasso di sviluppo economico. La tipica dialettica italiana di modernità e arretratezza si presenta ancora una volta e impone di operare scelte in qualche modo strutturali. Il dato per me più significativo è che circa il 50% dei giovani neet italiani è fermo alla terza media come titolo di studio. Solo se si comprendono anche i 30enni la quota scende sotto il 50%.
Il dato ci riporta a un tema oggi fortemente dibattuto nell’ambito delle politiche attive del lavoro: la difficoltà, quasi lo scollamento, che esiste nei percorsi scuola-lavoro e come si è cercato di sopperire a questo limite storico del nostro sistema di istruzione. Da tempo è evidente che in Italia dovremmo studiare e lavorare di più. I tassi di scolarizzazione sono bassi e il saggio di occupazione pure. Fra i due vi è una correlazione abbastanza evidente. I continui richiami al fatto che molti posti di lavoro rimangono vacanti perché le imprese non trovano figure professionali formate in modo adeguato confermano questo dato evidente.
Una recente pubblicazione Isfol sull’istruzione e formazione professionale di recente pubblicazione cerca di mettere a fuoco successi e insuccessi di questo anello fondamentale per il rapporto istruzione-lavoro. I dati sono riferiti al 2014, primo anno del compimento dei percorsi avviati dalla riforma del sistema, e coinvolgono oltre 500.000 giovani in tutto il Paese. Visto il ruolo fondamentale giocato dalla legislazione attuativa delle regioni, appaiono identificabili tre modelli.
Il primo, dove l’attuazione della riforma è pienamente assunta e il sistema presenta la novità di istituti di Istruzione e formazione professionale con corsi triennali (che coprono anche l’obbligo scolastico) e passaggi poi al IV e V anno organizzati e previsti dal sistema. Questi modelli vedono poi convivere i percorsi di Formazione professionale e Istruzione professionale esistenti. Convivenza e competizione in un quasi mercato dove l’aumento dell’offerta formativa è servita ad assorbire parte significativa dell’abbandono scolastico.
Il secondo modello ha previsto la presenza di tutti i modelli, ma attraverso meccanismi di accreditamento che lasciano alla Regione la scelta di attivare o meno le classi di istruzione e formazione professionale con assolvimento dell’obbligo scolastico. Il risultato è solo formalmente simile e non facilita la crescita di collaborazioni spontanee. Ha prodotto però accordi di formazione simili al sistema duale.
Il terzo modello è composto da regioni che hanno frenato il sistema, per ragioni politiche o di bilancio, e hanno lasciato al sistema preesistente i percorsi scolastici, aprendo solo a una nuova formazione professionale post-obbligo scolastico.
Dai risultati esposti emerge come solo il primo modello ha dato vita a una crescita virtuosa capace di rispondere alle esigenze delle famiglie e del sistema di imprese del territorio, ottenendo risultati sia nel recupero scolastico che nel creare formazione professionale per i livelli superiori (diploma professionale e percorsi universitari professionali). A ulteriore sostegno del modello più aperto è da segnalare che in queste regioni si registrano anche i migliori dati di frequenza per extracomunitari e portatori di handicap. Segno che quando la risposta alle esigenze della società è reale non servono leggi di tutela, modello riserve indiane, per le minoranze.
I risultati posti in evidenza dalla ricerca dicono molto alla scelta oggi avviata di introdurre anche in Italia il sistema duale. Sistema che assicura, nei paesi dov’è applicato, il minor numero di abbandoni scolastici e di neet di tutta Europa. Tale modello amplierebbe la possibilità di avere percorsi di formazione sul lavoro potenziati rispetto alle esperienze già avviate. Svilupperebbe in modo sistematico il rapporto fra formazione e sistema delle imprese con risultati occupazionali molto significativi alla fine dei percorsi formativi. Sarebbe lo snodo fondamentale per avviare percorsi scuola lavoro estendibili poi a tutto l’insieme del sistema dell’istruzione.
Pesa un problema di risorse. A oggi quelle nazionali, regionali ed europee investite nel settore soffrono delle scelte locati operate e dell’indecisione nazionale di spostare fondi dall’istruzione al workfare. Solo così sarà possibile dare stabilità a quanto è stato avviato assicurando continuità e certezze a quanti hanno investito nel settore. Vi è poi una questione di competenze e di livelli minimi che non possono che essere comuni a livello nazionale. Il referendum istituzionale avrà su questo tema un impatto importante. Certo, già oggi un posto in un istituto professionale gestito costa oltre il 50% in più degli efficienti Istituti di educazione e formazione professionale. Lo Stato può decidere di rimanere centralistico e costoso o riformarsi e modernizzarsi imparando dalle regioni più virtuose.