La tragedia avvenuta pochi giorni fa in Spagna ci invita, tra le altre cose, a riflettere su cosa sia, e cosa rappresenti per chi vive quest’esperienza, l’Erasmus (oggi nella sua versione “Plus”), ossia il programma dell’Unione europea per l’istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport. Il programma che, è opportuno segnalarlo, in questo suo nuovo formato, è diventato un grande contenitore in cui si combinano e integrano tutti i finanziamenti dell’Unione europea esistenti in questo campo fino al 2013: il Programma di apprendimento permanente (Comenius, Erasmus, Leonardo da Vinci, Grundtvig) Gioventù in azione, i cinque programmi di cooperazione internazionale (Erasmus Mundus, Tempus, Alfa, Edulink e il programma di cooperazione bilaterale con i paesi industrializzati). Comprende, inoltre, le Attività Jean Monnet fino a includere, per la prima volta, anche un sostegno allo sport.
Un programma che così integrato offre una più chiara visione d’insieme delle opportunità disponibili, mira a facilitare l’accesso alle misure e promuove sinergie tra i diversi settori rimuovendo le barriere tra le varie tipologie di progetti, attraendo così sempre nuovi attori dal mondo del lavoro e dalla società civile e stimolando nuove, e innovative, forme di cooperazione.
L’importanza di un progetto come questo è ancor più evidente se si legge il contesto socio economico in cui Erasmus+ si inserisce: quasi 6 milioni di giovani europei disoccupati, con livelli che in alcuni paesi superano il 50%, mentre si registrano, allo stesso tempo, oltre 2 milioni di posti di lavoro vacanti e un terzo dei datori di lavoro segnala difficoltà ad assumere personale con le qualifiche richieste. L’Erasmus+ è, quindi, chiamato a provare a dare risposte concrete a queste problematiche, attraverso il finanziamento e l’organizzazione di opportunità di studio e formazione, di esperienze lavorative o di volontariato all’estero, oltre alle “immancabili” feste per “socializzare”.
Recenti studi ci dicono, inoltre, che un’esperienza di mobilità all’estero ha un impatto sui ragazzi che la vivono a tutti i livelli, da quello personale (meriterebbe un approfondimento il fenomeno dei “fidanzamenti” in Erasmus) a quello culturale e, anche, professionale. Un’esperienza del genere coinvolge, infatti, l’aspetto emotivo, ma promuove anche lo sviluppo di caratteristiche personali quali la tolleranza, la fiducia in se stessi, l’abilità nella risoluzione dei problemi, la curiosità, la consapevolezza dei propri pregi e difetti, la risolutezza, molto apprezzate dai datori di lavoro come rivelano anche alcune ricerche finanziate dalla Commissione europea.
Queste analisi rivelano, ad esempio, che a un tirocinante Erasmus su tre è stato offerto un posto di lavoro nell’azienda che lo ha ospitato, quasi uno studente su dieci ha dato vita a una propria attività e più di 3 su 4 prevedono di farlo, evidenziando una forte spinta all’imprenditorialità tra gli studenti con un’esperienza di formazione internazionale. Tra i laureati, inoltre, l’incidenza della disoccupazione di lunga durata è la metà rispetto a chi non ha studiato, né si è formato all’estero e, a cinque anni dalla laurea, il loro tasso di disoccupazione è più basso del 23% rispetto a chi non ha vissuto queste esperienze. Gli effetti della mobilità internazionale si riflettono, quindi, anche sugli sviluppi della carriera: il 64% dei datori di lavoro intervistati ha dichiarato che ai laureati con un background internazionale sono date maggiori responsabilità professionali.
È, insomma, questa l’Europa che ci piace, non quella dei “muri” e dei populismi. L’Europa, infatti, può continuare a essere una grande opportunità e un sogno su cui dobbiamo continuare a scommettere. Oggi lo dobbiamo fare per un motivo in più: onorare questi giovani ragazzi, italiani, ma non solo, che hanno perso, tragicamente, la vita mentre provavano, mettendosi in gioco, a crearsi un futuro migliore.