I dati sulla ripresa dell’occupazione circolano ormai da alcune settimane e sono già stati accolti dalla compagine governativa come conferma della bontà della complessa riforma del mercato del lavoro portata avanti negli ultimi due anni. Lungi dal volerci unire al cori dei “gufi” – così come ha avuto modi di apostrofare prontamente il Premier Renzi coloro che si siano dimostrati critici rispetto ai risultati sinora raggiunti dal Jobs Act – ci sembra, tuttavia, doveroso approfondire l’analisi dei dati in questione, così sollecitamente sbandierati, magari con il supporto dell’opinione di tecnici indipendenti.



Ci pare infatti opportuno soffermarci sulla versione preliminare di un lavoro di Paolo Sestito (capo del servizio Struttura economica della Banca d’Italia) e di un’economista del suo staff, Eliana Viviano, i cui risultati sono stati anticipati su Repubblica.it lo scorso 19 febbraio. Ciò che si ricava da tale ricerca è, sostanzialmente, che le modifiche normative apportate dal Jobs Act hanno avuto sì un effetto positivo, ma non determinante rispetto agli incrementi occupazionali registrati rispetto all’anno precedente la sua entrata in vigore. Al contrario, il vero volano della ripresa occupazionale risulta essere stato il sistema di incentivi fiscali e contributivi.



Più nello specifico, i due ricercatori di Bankitalia – utilizzando, occorre dirlo, un campione ancora ristretto – hanno riscontrato che, con riferimento al periodo gennaio 2013/novembre 2015, circa il 45% delle nuove assunzioni a tempo indeterminato avvenute sia attribuibile ad almeno una delle due misure in discussione. Tuttavia, il merito delle stesse è da attribuire quasi esclusivamente all’introduzione degli incentivi fiscali. La combinazione del contratto a tutele crescenti e degli incentivi spiega, difatti, solo il 5% delle nuove assunzioni a tempo indeterminato.

Questo dato va, poi, ulteriormente raffrontato con il numero complessivo delle assunzioni rilevate nel campione (comprendenti, naturalmente, tutte le altre forme contrattuali). Ebbene, considerando che il contratto a tutele crescenti rappresenta solo un quinto delle nuove assunzioni, i ricercatori hanno concluso che l’effettivo contributo della riforma del lavoro all’incremento delle assunzioni valga appena l’1% dell’aumento registrato.



In conclusione gli stessi economisti ritengono che, riportando i dati da loro rilevati sul campione osservato all’intero territorio nazionale, il complessivo disegno di riforma (comprensivo quindi delle modifiche normative e degli incentivi economici), potrebbe aver avuto un ruolo determinante nella creazione di circa 45.000 nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato nei primi sei mesi del 2015.

Si tratta certamente di un numero non irrilevante, costituendo un’inversione di tendenza rispetto ai semestri precedenti, ma assai meno significativo dai dati resi pubblici dall’Inps nel medesimo periodo. L’Istituto, infatti, sebbene su presupposti diversi, ha riportato un numero di circa 600.000 assunzioni a tempo indeterminato in più nell’intero 2015.

In verità, a ben vedere, questo dato restituisce solo una fotografia parziale del mercato occupazionale. È l’Istat, precisamente, con il Rapporto sulla competitività dei settori produttivi (pubblicato lo scorso 24 febbraio) a certificare il modesto impatto della riforma nella crescita di posti di lavoro registrata dallo stesso istituto e dall’Inps. A leggere i dati riportati dall’Istat, per l’appunto, il nuovo contratto a tutele crescenti introdotto con il Jobs Act sembra aver esercitato un ruolo positivo, ma marginale rispetto agli sgravi contributivi. Per dirlo con le parole del rapporto in questione: “Per la metà delle imprese manifatturiere che hanno dichiarato un aumento netto di occupazione tra gennaio e novembre 2015, gli esoneri contributivi sembrano aver rappresentato l’elemento decisivo per l’aumento dello stock occupazionale“. Tale quota nel settore del terziario cresce fini al 61%, soprattutto in settori come quello dell’informazione e comunicazione e nel turismo.

Di contro, sempre secondo il rapporto, “tra le imprese della manifattura che hanno incrementato il personale dipendente, il contratto a tutele crescenti è stato giudicato molto o abbastanza importante ai fini dell’assunzione di nuovo personale dal 35% delle imprese (a fronte di un 55% che la considera poco o per nulla rilevante)“. Più in generale, l’Istituto aggiunge che solo in relazione alle agevolazioni contributive si riscontra un effetto “statisticamente significativo“. Nello specifico, solo in relazione a tale intervento (e non al contratto a tutele crescenti) è possibile collegare un aumento (medio) del 24% della probabilità di aumento del personale a tempo indeterminato.

Che i dati attualmente disponibile debbano essere accolti con la massima cautela è quello che si desume anche dall’indagine trimestrale di Manpower Group Meos (Manpower Employment Outlook Survey), pubblicata pochi giorni fa. Dalla stessa si evince che soltanto il 6% dei datori di lavoro intervistati ha intenzione di incrementare il numero dei propri dipendenti nei prossimi mesi, contro il 4% che prevede sin d’ora un calo nelle assunzioni e ben l’87% che non ha in programma alcuna variazione al proprio organico.

Tale dato va, poi, ulteriormente coordinato con gli aggiustamenti stagionali, portando la previsione netta sull’occupazione a quota 0%. Un dato, quindi, che dà atto dell’inversione di tendenza e di una fiducia in ripresa da parte degli imprenditori, ma che continua a essere ben lontana dai numeri pre-crisi.

Da ultimo si possono analizzare i dati sul mercato del lavoro nel 2015 nell’area metropolitana di Milano presentati lo scorso 3 marzo dall’Osservatorio metropolitano meneghino. Anch’essi rivelano il chiaroscuro dell’impianto della riforma con segni più e segni meno che si avvicendano ripetutamente (per fare alcuni esempio: +12% di tirocini trasformati in contratti a tempo indeterminato rispetto all’anno precedente; -4% di assunzioni complessive post-stage; boom di assunzioni a dicembre 2015 e immediato brusco calo a gennaio 2016).

Va detto, a questo punto, che se il contratto a tutele crescenti resterà in vigore nei prossimi anni, gli incentivi alle assunzioni non seguiranno la stessa sorte. Già per l’anno in corso sono stati notevolmente ridotti e, in ogni, caso si tratta di misure definite di carattere eccezionale, legate all’attuale congerie economica.

Come si coordina, quindi, una tale limitazione temporale dell’incentivo con le esigenze delle aziende? Stando al rapporto dell’Istat sopra menzionato, si direbbe molto male. Dallo stesso emerge infatti che una impresa su tre del settore manifatturiero indica come ostacolo all’assunzione di nuove risorse il costo del lavoro eccessivo. Nelle imprese dei servizi la valutazione è sostanzialmente analoga, rappresentando l’ostacolo più diffuso al reclutamento di nuovo personale nel settore.

Allineando tutte le considerazioni che precedono non si può che concludere che la riforma portata avanti dall’attuale governo pecchi in maniera evidente dal punto di vista strutturale. La stessa è intervenuta soltanto su una parte del mercato del lavoro, quella relativa alla flessibilità in uscita. Al contrario, sul versante della flessibilità in entrata – determinante in un contesto di stagnazione economica – l’intervento concepito si è rivelato assolutamente contingente e asistematico.

La previsione di un incentivo fiscale e/o contributivo con formule una tantum di durata annuale (come quelle sinora utilizzate) non fa altro che creare inefficienze: le aziende non riescono a effettuare alcuna programmazione di lungo periodo su di un incentivo del quale siano incerti il rinnovo e gli eventuali termini dello stesso; il mercato del lavoro diventa di difficile analisi e di imprevedibile evoluzione, soggetto a fluttuazioni schizofreniche legate all’estemporaneità del beneficio concesso.

Viene spontaneo chiedersi, quindi, se è davvero così necessario aggiungere incertezza a un mercato (interno e internazionale) già profondamente instabile e mutevole. E se non sarebbe meglio, invece, adottare una volta per tutte dei provvedimenti che riducano stabilmente il costo del lavoro. Come si è visto, questa è la preoccupazione principale delle imprese, l’unico vero elemento che consentirebbe alle stesse di programmare la propria crescita e, conseguentemente, quella delle proprie risorse in un momento storico così delicato.

Privilegiare interventi di breve respiro, sicuramente funzionali ad “aggiustare i numeri” in vista della tornata elettorale più vicina, nei fatti si rivela soltanto una forma di “doping amministrativo” somministrato al mercato del lavoro, totalmente incapace di dare una soluzione stabile alle carenze sostanziali di un sistema occupazionale che meriterebbe un vero processo di riforma.