Ieri Istat ha diffuso la periodica rilevazione mensile circa i livelli occupazionali: il tasso di disoccupazione a maggio è sceso all’11,5% (era all’11,6% ad aprile) e il tasso di occupazione risulta invece pari al 57,1%, in aumento di 0,1 punti percentuali sul mese precedente. Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) risulta stabile al 36,9%, rispetto al mese precedente.
A proposito del tasso di occupazione, una recente rilevazione Eurostat ha mostrato che l’Italia è uno dei Paesi europei in cui il tasso di occupazione degli extracomunitari è più alto di quello della popolazione locale: parliamo del 6,9% in più, quasi come in Spagna (6,2%); solamente in Grecia e in Slovenia il divario è maggiore (11,2% e 10,3%), mentre mediamente in Europa gli extracomunitari sono meno occupati del 10% circa, percentuale che sale al 20% in Francia e al 22% in Germania.
Se si considera la fascia 15-24 anni, qui si registra il massimo della differenza: tra gli extracomunitari giovani lavora il 33% in più che tra gli italiani. Certamente i numeri del fenomeno neet – oltre 2 milioni di giovani italiani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano – contribuiscono a rendere così marcata questa difformità, ma la ragione di questo divario non è solo questa.
In sintesi, nel nostro Paese i tassi di occupazione degli stranieri sono più alti della media Ue, e nelle economie più ricche e avanzate – come Germania e Francia – gli stranieri hanno meno spazio nel mercato del lavoro. Se parliamo invece di stranieri comunitari, in nessun Paese come il nostro la differenza è maggiore (Italia +14,9%, Polonia +13,4%, Spagna +5,1%, Francia -1,2%, Germania -1,3%).
Questo, chiaramente, non perché in Italia il numero degli stranieri sia più elevato rispetto agli altri paesi, ma perché il nostro mercato del lavoro – come del resto altri mercati in particolare dell’area mediterranea – predilige lavoratori con basse competenze, anche per via di un ampio comparto (che va dall’agricoltura, ai servizi di cura e di pulizia, ai magazzini della logistica, all’industria agro-alimentare, ecc.) che cerca profili bassi e poco costosi. C’è da dire, tuttavia, che è in crescita – per via di un mercato del lavoro non del tutto in ripresa – il numero degli italiani impiegati in questi settori, in particolare nei servizi di cura.
Come noto, la maggior parte delle nostre imprese non è così orientata ai profili alti: questo perché il tessuto produttivo nostrano è quasi nella sua totalità espressione della piccola e media impresa, dove il profilo alto è spesso di troppo; inoltre, il nostro mercato del lavoro resta molto legato a logiche informali, dove prevale la rete delle conoscenze a discapito delle competenze. È questo che da molto tempo sortisce la cosiddetta “fuga dei cervelli” che, se non è una fuga, è un processo di adattamento che porta a spostarsi dove si trova il lavoro che più corrisponde: i profili alti in molti casi non trovano il lavoro in Italia bensì in Europa, in particolare in Gran Bretagna e nella zona mitteleuropea, in virtù di una maggior presenza della grande impresa che nei paesi dell’Europa mediterranea, tra cui l’Italia, non è così sviluppata.
La crescita del sistema economico e produttivo è legata ai processi innovativi. Ecco perché il trend dell’occupazione va invertito: più lavoro per i giovani – sono lori i portatori di innovazione -, ma soprattutto più competenze che possano crescere competitività e innovazione nelle aziende.
Twitter @sabella_thinkin