Ieri l’lstat ha reso noto che a luglio gli occupati tornano a calare dello 0,3% rispetto al mese di giugno (-63mila), interrompendo la tendenza positiva registrata nei 4 mesi precedenti. Il calo su base mensile è attribuibile sia agli uomini sia in misura maggiore alle donne e riguarda gli autonomi (-68mila), mentre restano sostanzialmente invariati i dipendenti.

Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, cioè la quota di giovani disoccupati sul totale di quelli attivi, è pari al 39,2%, in aumento di 2 punti percentuali rispetto al mese precedente. Dal calcolo del tasso di disoccupazione sono esclusi i giovani inattivi, sia quelli impegnati negli studi come del resto i neet, ovvero quelli che non studiano né lavorano (oltre 2 milioni).

Il tasso di disoccupazione scende all’11,4%, in calo di 0,1 punti percentuali su giugno. Torna così al livello di maggio. I disoccupati (2,9 milioni) diminuiscono dell’1,3% rispetto a giugno (-39mila). Il calo interessa sia gli uomini (-1,4%) sia le donne (-1,2%) e tutte le classi di età eccetto i 15-24enni (+23mila) e i 25-34enni (+38mila). A questa riduzione contribuisce anche l’aumento degli inattivi (+53mila).

Onde evitare di ripetere sempre le stesse cose, considerato che la rilevazione Istat si ripropone ogni mese e – ahimè – che da troppo tempo esiste un problema occupazionale, pare interessante l’elaborazione sul lavoro sommerso della Fondazione studi Consulenti del lavoro, realizzata di recente su dati del ministero: nel 2016 sono stimati “1,85 milioni” di occupati irregolari (“a fronte di 5,8 milioni di imprese attive”), cifra in discesa di 250mila unità rispetto al 2015. Scende, ma “rimane consistente”, l’evasione fiscale e previdenziale che “si attesta a 22,6 miliardi” (nel 2015 era di 25 miliardi).

È evidente che questa enorme massa di lavoro nero ha una grossa incidenza sulle stime tutt’altro che brillanti che Istat diffonde, ma l’intero dibattito da sempre prescinde totalmente dai tassi di lavoro nero. Quanto pesa ad esempio tutto questo sul fenomeno della disoccupazione e dell’inattività giovanile, di quei giovani che secondo Istat non studiano e non lavorano? Sarebbe interessante capirlo, come del resto sarebbe interessante capire quanti sono realmente i giovani disoccupati (15-24 anni) visto che in Italia l’età del primo impiego è molto tardiva: si registra infatti attorno ai 22 anni, contro i 16,7 dei tedeschi, i 17 degli inglesi e i 17,8 dei danesi.

Un’ultima annotazione che fa guardare con speranza al futuro: una recente indagine di Confindustria e centro studi Srm (gruppo Intesa Sanpaolo) rileva che, per la prima volta dal 2008, nel secondo trimestre 2016 è cresciuto il numero delle imprese, “oltre 10mila in più, +0,6%”: si tratta di 220mila imprese giovanili e start up innovative (+39,2% in un anno). Il 40% di queste sono al sud, il 24% nel nord-ovest, il 16% nel nord-est e il 20% nel centro Italia. È ora di preoccuparci di sostenere questa crescita non solo quantitativa ma anche qualitativa. Anche da qui passa l’innovazione del paese.