Cala la disoccupazione: buon segno. No quella che cala è l’occupazione: bruttissimo segno. Ma figurarsi: anche se qualche segnale positivo c’è, aumenta la disoccupazione giovanile e questo è un brutto segno. Macché: la sola analisi seria è quella che sottolinea che i dati cambiano perché aumentano coloro che cercano il lavoro. Ieri mattina, non appena le agenzie hanno battuto i dati sull’occupazione di novembre 2016, si sono scatenati i commenti e le analisi degli “esperti”. Il panorama dei giudizi è quello che vi abbiamo riassunto in poche linee e ricalca, grosso modo e senza troppa fantasia, quello che aveva agitato i primi giorni di dicembre, quando l’Istat aveva diffuso le cifre relative al mese di ottobre.

Cos’è cambiato da allora? Beh, il Governo di sicuro, ma anche una forte riduzione degli inattivi (469mila in meno) a fronte di un più alto livello di occupati (201mila in più, 135mila dei quali permanenti) e di un maggior numero di persone che cercano lavoro (165mila disoccupati in più). Ottimo per chi ha cercato e trovato; meno bene per chi ha cercato e non ha trovato.

Il fatto è che, a nostro modesto avviso, un mese fa i commenti erano influenzati dall’imminente voto, e oggi invece dipendono solo da una miopia, se ci è consentita la critica, di fondo. Il problema dell’occupazione non riguarda gli statistici, gli esperti di andamenti e di grafici, gli analisti degli scostamenti. Tanto meno quando questi analisti sono navigati soprattutto nel (non) indovinare i risultati delle elezioni politiche. La questione dell’occupazione, dell’impiego della gente comune, del trovare il posto di lavoro, riguarda invece due categorie di persone. 

Anzitutto coloro che sono disoccupati e che aspettano sempre che lo Stato, cioè la comunità, garantisca loro una compagnia nella ricerca di un impiego: una compagnia che, peraltro, è prevista da una legge nella quale si fantasticava di percorsi formativi, di formazione continua, di stage con un formatore. Fantasie appunto, almeno per ora, ma che se concretizzate darebbero una prima, immediata, risposta a tanti bisogni. E poi, diciamocelo, la questione dell’occupazione riguarda gli imprenditori e i sindacati. O meglio, gli imprenditori in quanto titolari di imprese e i sindacati in quanto rappresentanti dei lavoratori.

Inutile, ridiciamolo, pensare di poter trovare impieghi nuovi se le aziende non hanno sbocchi sui mercati, se le nostre merci costano di più di quelle dei concorrenti, e se tali costi dipendono da un sovrappiù di tassazione, da pesi diretti e indiretti che gravano sul costo orario. Non sono certo gli aumenti legati ai contratti nazionali, che maggiorano lievemente i salari, a soffocare le aziende, quanto invece le tasse che pesano oltre misura, l’energia che costa spropositatamente, un ritardo cronico nazionale in tema di ricerca sui prodotti (oltre che sui processi di produzione), università ripiegate su se stesse, una burocrazia che non aiuta ma ostacola.

La disoccupazione si combatte solo creando lavoro a partire da quello che già esiste, cioè sviluppando le imprese, non solo discutendo se dare o meno gli incentivi alle aziende: è questo un tema che riguarda l’Europa, ma che anche noi da soli potremmo affrontare. 

Un primo passo in tale direzione sarebbe quello di applicare finalmente quel che le leggi prevedono: dal Jobs Act alla recente Legge di stabilità. Un secondo sarebbe quello di intervenire a tagliare qualche imposta, prendere decisioni in tema di energia, di trasporti e viabilità, di ammodernamento del Sistema-paese, come, ad esempio, modificare un sistema legislativo che, pensato per impedire le effrazioni e i reati, finisce talora per favorirli.

Infine, sullo sfondo, magari anche ripensare qualche scelta “strategica” che, per essere “bella, pulita e ideale”, oggi ci costa però troppo in termini di posti di lavoro e di sviluppo, e che dunque forse non possiamo più permetterci.