Si è appreso la scorsa settimana che Cgil, Cisl e Uil hanno chiesto al Governo di riaprire il confronto sulla previdenza e, attraverso il Ministro Giuliano Poletti, l’esecutivo ha reso noto di essere disponibile. Al di là delle pensioni, continuano a essere caldi i temi dei voucher, del Sud, dei giovani e, in particolare – visto il flop annunciato poche ore fa – del part-time agevolato. Resta sempre molto distante dal confronto tra Governo e Parti sociali – al di là delle buone intenzioni, vere o presunte tali – una discussione sistemica sulla crescita economica. Questa può avvenire solo in presenza di una forte ripresa della domanda interna; ma è chiaro che il fattore decisivo della crescita del consumo, e quindi del Pil, sono i salari.
Come rilevato da Eurostat nel mese di dicembre, gli stipendi in Italia restano i più bassi dell’Europa occidentale: la paga media oraria in Italia si ferma a 12,5 euro. Peggio di noi solo Spagna (9,8) e Portogallo (5,1) che però si possono consolare con un potere d’acquisto superiore. Non parliamo poi dei nostri principali competitor – vedi Germania (15,7) e Francia (14,9) – o delle economie del nord Europa, Danimarca (25,5) e Svezia (18,5).
Posto che il fattore fiducia resta quello determinante, l’Italia è quindi chiamata a lavorare sulla crescita dei salari se vuole porre le basi per una vera ripresa. Va detto che, da questo punto di vista, gli sforzi delle Parti sociali sono stati importanti in questi anni: la contrattazione di secondo livello ha aiutato a conservare posti di lavoro oltre che a distribuire ricchezza. Va inoltre ricordato che l’intesa di luglio tra Confindustria e Cgil, Cisl, e Uil – unitamente ai provvedimenti del Governo Renzi sulla detassazione del salario di produttività – offre oggi strumenti in funzione della distribuzione della ricchezza anche a quelle aziende che non contrattano direttamente.
Se consideriamo inoltre che particolari aumenti salariali da contratto nazionale se ne registrano e registreranno pochi e che anche la componente più massimalista del sindacato (leggi Fiom-Cgil) con la recente firma del Ccnl metalmecanico ha ceduto ai principi del secondo livello, ciò spiega quanto il sindacato oggi abbia fatto molto in una situazione certamente complessa e che quindi è difficile chiedere altro a chi contratta, tenuto conto della situazione critica in cui versa gran parte dell’impresa.
Certamente la crescita della produttività del lavoro resta centrale. Anche in questo caso, il nostro Paese non brilla: nel periodo 1995-2015, in Italia – fonte Istat – la produttività è aumentata a un tasso medio annuo dello 0,3%, risultando decisamente inferiore alla media Ue (+1,6%) e all’area euro (+1,3%). Tassi di crescita in linea con la media europea sono stati registrati per Germania (+1,5%), Francia (+1,6%) e Regno Unito (+1,5%); per la Spagna, il valore è stato più basso (+0,6%) della media europea ma più alto di quello dell’Italia.
Tuttavia, se pensiamo che, insieme a Germania, Francia, Belgio e Austria, l’Italia resta tra i paesi europei col livello più alto di cuneo fiscale – ovvero il totale delle imposte che ricadono sul lavoratore (dirette, indirette e contributi previdenziali) – si spiega da sé come la via per la crescita dei salari sia proprio la leva della tassazione: lavoro e impresa necessitano oggi più che mai di uno shock fiscale. È la via che ha percorso con successo in questi anni la Spagna – ne abbiamo parlato anche su queste pagine -, più volte annunciata da Matteo Renzi- ma alla fine percorsa in modo piuttosto parziale: la più volte guadagnata flessibilità europea ha cresciuto soprattutto spesa pubblica.
Resta alquanto misterioso perché le rappresentanze del lavoro e dell’impresa insieme non intavolino su questo punto un serio confronto col Governo.
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