Finalmente si comincia ad avere coscienza dell’inconsistenza di alcuni degli indicatori della epidemia che vengono utilizzati come criteri per la suddivisione in fasce di rischio delle nostre regioni.

Il primo sul banco dell’accusa è il celebre indice Rt che ha vissuto in passato periodi di grande popolarità, ma che oggi in alcune regioni continua a crescere anche in una fase di evidente recessione della pandemia. Dando voce a molti governatori di Regione, il presidente della conferenza delle regioni Massimiliano Fedriga lo ha apertamente criticato in un recente podcast di Repubblica non considerandolo un indicatore valido al quale affidare la classificazione in regioni nelle varie fasce colorate.



Ho personalmente espresso questo parere già in passato in diverse occasioni (ad esempio nella mia intervista del 27 gennaio scorso) e più recentemente in una intervista sull’edizione online de Il Giornale del 30 aprile.

In tali occasioni ho sottolineato come la stima di Rt si fondi, infatti, su un modello per il quale sono lecite alcune perplessità che riassumo sinteticamente qui di seguito rimandando ai link per approfondimenti:



a) alcune grandezze del modello sono fissate a priori (ad esempio il tempo di generazione) sulla base di osservazioni ormai obsolete;

b) la stima ufficiale del numero di infetti utilizzata nel modello si va distanziando sempre più dal dato reale data la abnorme sottostima degli asintomatici/paucosintomatici;

c) l’ampiezza dell’intervallo di tempo considerato è soggettiva e influenza il calcolo di Rt;

d) la stima di Rt a livello sub-nazionale (ad esempio regionale) è estremamente inaffidabile.

Nella fase iniziale dell’epidemia lo scorso anno tale indicatore è stato preziosissimo come misura a livello nazionale in un periodo nel quale il modello era appena stato tarato su dati recenti, la stima degli infetti non era troppo lontana dalla realtà e tutto l’intervallo di tempo trascorso da inizio epidemia veniva preso in considerazione. Oggi non lo è più.



In realtà, come affermiamo da tempo insieme a molti altri statistici, con pochi aggiustamenti il parametro potrebbe essere stimato in maniera molto più corretta, ad esempio aggiungendo ai circa 300mila tamponi giornalieri qualcosa come 3mila tamponi (solo l’1% in più!) raccolti non per fini di sorveglianza sanitaria, ma selezionando il campione con criteri rigorosi per il solo scopo di conoscenza statistica del fenomeno per stimare correttamente, in particolare, il numero di persone infette includendo gli asintomatici.

Tuttavia, ad oggi, tale proposta non è ancora stata ascoltata. L’anno scorso, probabilmente a ragione, nella fase iniziale di estrema emergenza, si è considerato che il sistema sanitario non fosse in grado di sostenere tale iniziativa, ma ora, probabilmente, si crede che essa non sia più necessaria ritenendo di esserci ormai avviati verso la recessione dell’epidemia. È un errore. La sorveglianza statistica della diffusione della pandemia sarà invece un aspetto di fondamentale importanza ancora nei mesi (e negli anni) a venire per prevenire e controllare tempestivamente nuove possibili insorgenze del Sars-Cov-2 e per farsi trovare pronti per l’eventuale insorgenza di altri virus.

Un secondo indicatore dell’epidemia altamente inaffidabile è l’incidenza (numero di nuovi casi) settimanale per 100mila abitanti, un dato troppo influenzato dal numero di tamponi effettuato eppure decisivo nella definizione delle aree di rischio. Infatti, più tamponi si effettuano più l’indicatore sale a prescindere dalla pericolosità della situazione. Affidare al superamento di una soglia di tale indicatore la decisione se chiudere o riaprire appare quanto meno azzardato.

Ogni buon cuoco sa bene che quando gli ingredienti sono di scarsa qualità è inutile mettersi a cuocere una pietanza complessa. Meglio fare un buon uso dei pochi ingredienti che si hanno a disposizione e cercare di portare in tavola un piatto semplice. E i soli ingredienti che abbiamo che sono dotati di una certa qual affidabilità (pur con qualche riserva) ad oggi sono: 1) il numero di decessi, 2) il numero di ricoverati in terapia intensiva, 3) Il numero dei ricoverati con sintomi e 4) il tasso di positività dei tamponi.

Questi indicatori, per fortuna, sono tutti in decrescita a livello nazionale. Il numero di decessi è tornato in (lenta) decrescita a partire dal 14 aprile (da 477 a 237 decessi giornalieri su media settimanale); i ricoverati in terapia intensiva sono costantemente scesi da 3.713 a 2.368 a partire dal 7 aprile (con gli ingressi che nello stesso periodo si sono dimezzati da 227 a 122). In calo dal 2 aprile anche i ricoverati con sintomi (passati da 28.935 a 17.347) ed il tasso di positività il quale, dopo aver raggiunto il picco il 7 aprile scorso, è sceso con ritmo costante da 7,1% a 3,8%.

Tuttavia, questi numeri assolutamente incoraggianti non devono indurci ad abbassare la guardia come se la pandemia fosse ormai alle spalle. L’anno scorso eravamo infatti in una situazione migliore di quella attuale quanto a numeri assoluti, eppure eravamo psicologicamente molto più cauti e disposti ad affrontare ancora il lockdown più severo per 10 ulteriori giorni prima delle prima timide riaperture. Guardando la tabella seguente, in effetti, notiamo che il numero dei decessi giornaliero un anno fa era sostanzialmente identico a quello odierno, mentre tutti gli altri valori erano più bassi di quelli attuali, in particolare il tasso di positività ed i ricoverati in terapia intensiva. I ricoverati in terapia intensiva oggi sono circa il doppio di quelli dell’8 maggio 2020!

Siamo quindi in una fase assolutamente decrescente, ma ancora molto calda dell’epidemia. Abbiamo poi imparato a nostre spese, e guardando le esperienze di altri paesi, come la guardia non vada mai abbassata pena il rischio di nuove impennate dei contagi.

Ma è il buon andamento della campagna vaccinale a consentirci di sperare che la situazione migliori rapidamente anche quanto a numeri assoluti. Abbiamo infatti somministrato finora già 16 milioni di prime dosi (il 27,5% della popolazione, rispetto ad una media europea del 23%) e 7 milioni di persone sono ormai interamente vaccinate (12,18% contro la media europea di circa 11%).

Con la priorità che si è assegnata alle persone più deboli ed anziane questo dovrebbe produrre rapidamente una diminuzione dei casi letali e quindi un ridimensionamento della gravità degli effetti del virus sulla popolazione.

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