Nelle discussioni relative alle politiche da seguire nei confronti della lotta al Covid-19, l’Italia è sempre più divisa a tutti i livelli tra gli aperturisti e i chiusuristi.

Il tema, ovviamente, non riguarda solo l’efficacia delle misure restrittive adottate per contrastare la diffusione del virus, ma anche, e forse soprattutto, i potenziali danni nel breve e nel lungo periodo che queste potrebbero procurare allo sviluppo economico del paese. Il dibattito riguarda un argomento delicato in quanto è in gioco molto del futuro del nostro paese, ma purtroppo, finora, esso non è stato sostenuto adeguatamente da sufficienti prove scientifiche.



Sui due fronti, ad esempio, possiamo citare, un articolo apparso di recente sul Journal of Clinical Epidemiology il quale sostiene che gli effetti del contenimento dipendono molto dalle tipologie di misure adottate (non tutte efficaci) e dal modello statistico utilizzato per le previsioni. Al contrario, uno studio condotto dalla Federal Reserve e del Mit, apparso alcuni mesi, fa sostiene che i danni all’economia derivano dall’epidemia stessa e non dalle misure adottate per il suo contenimento e che addirittura maggiori restrizioni potrebbero favorire, nel lungo andare, la crescita economica.



La posizione aperturista va indubbiamente arruolando una fascia sempre più ampia dell’opinione pubblica e questo è certamente comprensibile per una lunga serie di motivi.

In primo luogo, l’insofferenza per una situazione che all’inizio si pensava dovesse durare solo (!) alcuni mesi e che ora, invece, si sta protraendo molto più a lungo. A ben pensare il sentimento che dominava il primo lockdown della primavera del 2020, accanto al timore, era quello della speranza. Ci si assoggettava abbastanza di buon grado a restrizioni ben più severe di quelle odierne nella convinzione che queste ci avrebbero portato rapidamente fuori dall’emergenza. Il sentimento prevalente oggi invece è quello della stanchezza per una situazione della quale non si vede la fine in tempi brevi.



Il secondo motivo, obiettivamente grave, è rappresentato dalle situazioni sempre più drammatiche che sono costretti a vivere molti settori dell’economia soprattutto quelli della ristorazione e del turismo.

Il terzo motivo è legato a quanto osserviamo a livello mondiale, con alcuni paesi vicini a noi (segnatamente Regno Unito ed Israele) che si avviano con decisione a riprendere una vita pseudo-normale.

Il quarto è rappresentato dal fatto che l’emergenza tende rapidamente a diventare routine e che quindi siamo portati ad effettuare un paragone con quanto vissuto l’anno passato di quest’epoca nella convinzione che la storia si ripeterà anche quest’anno e che l’estate ci regalerà di nuovo un periodo di relativa normalizzazione.

In questo dibattito, il nostro attuale Governo sembra avere adottato una posizione equidistante di prudenza che credo di poter affermare sia giustificata dai numeri.

Infatti, ferme restando la validità delle altre motivazioni, il confronto con quanto osservato in altri paesi del mondo e quello con l’estate del 2020 non dovrebbe indurci un particolare entusiasmo.

In effetti, il Regno Unito, che pure ha seguito scelte discutibili in passato, a partire dall’inizio dell’anno ha adottato una politica molto severa di restrizioni nel periodo che è andato dai primi di gennaio fino ad oggi e solo ora, avendo ottenuto numeri decisamente confortanti con tre mesi di lockdown molto duro, e con un tasso di vaccinazione del 16,2% (circa doppio del nostro) sta adottando decise misure di allentamento e riapertura. L‘ultimo bollettino ufficiale del Regno Unito riferisce 3.402 nuovi casi e 52 decessi nel paese con un rapporto tra nuovi contagi e popolazione che è più basso di quello di tutti i paesi dell’Unione Europea escluso il Portogallo. D’altro canto, lo stato di Israele è ormai uscito dal lockdown e sta per mettere fine alla parola emergenza, ma può vantare il più alto tasso di vaccinazione (completa) del mondo (55%) e procedure molto severe per i viaggi in entrata ed in uscita dal paese.

Al contrario, gli Stati Uniti, pur essendo riusciti ad ottenere con una massiccia campagna un tasso di copertura vaccinale (completa) che ad oggi raggiunge il 26,3%, non accenna a ridurre drasticamente le misure di contenimento se non in alcuni stati.

Se poi ci riferiamo ai confronti con l’anno passato le considerazioni pure ci dovrebbero indurre ad una certa prudenza. In tal senso, la tabella successiva mette a confronto la situazione odierna con lo stesso istante di tempo dell’anno passato.

Dalla tabella si evince che il numero di ricoverati in reparti di terapia intensiva è oggi molto più elevato di quello dello scorso anno (+32,8%) ed ancora pericolosamente al di sopra della soglia di sostenibilità in molte regioni. D’altro canto, il tasso di positività è oggi identico a quello di un anno fa (4,7%), mentre il numero dei ricoverati con sintomi è appena un po’ al di sotto dei valori registrati il 27 aprile dello scorso anno con una variazione in meno del 3,7%.

L’unico dato nettamente in miglioramento è (fortunatamente) quello relativo al numero di decessi (-19,3%), una diminuzione che è con tutta probabilità da ascrivere principalmente ai buoni risultati raggiunti dalla campagna vaccinale, soprattutto quella rivolta alle persone più anziane e quelle più fragili e quindi caratterizzate da mortalità più elevata. La tabella riporta per completezza anche il dato relativo ai nuovi positivi (valore che risulta quasi quintuplicato!), ma al quale non si può assegnare alcun significato sostanziale dato il numero molto più elevato di tamponi somministrati quest’anno rispetto all’anno scorso.

Se l’anno scorso abbiamo potuto godere di un periodo estivo relativamente tranquillo è stato perché, con numeri che, come abbiamo visto, non erano assolutamente peggiori (anzi per alcuni versi migliori) di quelli attuali, si è proseguito con un lockdown severo ancora per circa un mese fino al 18 maggio. Ha dunque forse qualche ragione il microbiologo Andrea Crisanti quando ammonisce circa il rischio, in caso di riaperture, di dover chiudere nuovamente proprio in estate con danni incalcolabili per la nostra economia.

Da un certo punto di vista partiamo dunque svantaggiati rispetto all’anno scorso, trovandoci maggiormente esposti ai rischi di trasmissione per via dell’indebolimento delle misure di contenimento, pur in una situazione epidemiologica non certamente migliore. Su tutti valga l’esempio della Sardegna la quale nel giro breve di poche settimane ha pagato il prezzo dell’allentamento del lockdown passando dalla zona bianca a quella rossa.

Tuttavia, un certo conforto ci può venire dall’andamento della campagna vaccinale, la quale, pur essendo ancora in ritardo rispetto ai piani annunciati a causa dei ritardi delle consegne da parte delle case farmaceutiche (l’obiettivo dei 500.000 vaccini al giorno è stato, infatti, posticipato a fine aprile) procede comunque a ritmi sostenuti se confrontata con gli altri paesi dell’Unione Europea.

La Figura 1 mostra come rispetto ai nostri partner comunitari ci poniamo al di sopra di paesi quali la Germania, la Francia e la Spagna e siamo superati solo da 5 paesi: Malta, Ungheria, Danimarca, Romania ed Austria.

Tra questi paesi, in particolare, va osservato come l’Ungheria abbia ottenuto questo risultato adottando una politica autonoma rispetto agli altri paesi dell’Unione autorizzando ben quattro vaccini oltre a quelli ammessi dall’Agenzia europea del farmaco (AstraZeneca, Moderna, Pfizer e Johnson & Johnson). Si tratta, in particolare, di due vaccini cinesi, prodotti da CanSino e Sinopharm, il vaccino russo, Sputnik V ed il vaccino Covishield, che è una versione di AstraZeneca prodotta in India.

Figura 1: Tasso di vaccinazione (completa) nei 27 paesi dell’Unione Europea.

Non siamo purtroppo ancora fuori dall’emergenza, ma il buon andamento della campagna vaccinale molto più che gli attuali numeri dell’epidemia, può indurci a credere che non ne siamo più troppo lontani.

Occorre però esercitare ancora la virtù della pazienza per non rischiare una ulteriore recrudescenza del virus la quale comprometterebbe la stagione estiva così importante per l’economia (oltre che per la nostra salute!) e vanificherebbe gli sforzi fatti fin qui, oltre che il successo stesso della campagna vaccinale. Anche dal punto di vista economico è preferibile, infatti, procrastinare le riaperture piuttosto che dover affrontare future ricadute. A tale riguardo, abbiamo già fatto riferimento in passato alla necessità di vincolare la ripartenza economica non ad una situazione di zero contagi (obiettivamente impossibile da raggiungere neanche a medio termine), bensì al raggiungimento di un livello che possiamo giudicare “tollerabile” dell’epidemia, il quale soppesi interessi sanitari ed economici.

Sono quindi più che opportuni i segnali di riapertura contenuti nel decreto legge 22 aprile 2021, n. 52.

Ma occorrerà monitorare con molta attenzione l’andamento dei numeri della pandemia.

Vale a riguardo il monito lanciato dell’epidemiologo Giovanni Rezza, direttore generale della prevenzione presso il ministero della Salute, il quale afferma: “Abbiamo ancora oltre 300 morti e 15mila casi al giorno, stiamo facendo delle riaperture in un momento in cui la curva sta flettendo leggermente. Il rischio c’è. Quello accettabile per un epidemiologo è zero, per un economista può essere invece 100 e per chi campa con un’attività che ha dovuto chiudere è ancora più elevato. È legittimo che la politica trovi una sintesi, dopodiché nessuno oggi può escludere che facendo ripartire scuole e altre attività la curva risalga”.

“Rischio ragionato” significa soprattutto capacità di intervenire tempestivamente in risposta all’insorgere di eventuali segnali negativi.

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