L’espansione e l’evoluzione della pandemia da Covid-19 può essere associata ad una piovra dai lunghi tentacoli (i focolai) con al centro delle vere e proprie voragini, in Cina Wuhan, in Italia la Lombardia, in Spagna Madrid e la Catalogna, in Francia Parigi ed aree limitrofe ed in Belgio l’area di Bruxelles, oltre a Londra e ad altre zone ad alta densità come la Baviera in Germania. Nei paesi come Brasile, India, Usa o Russia i focolai sono concentrati nelle zone ad alta densità abitativa (del resto anche la febbre suina nel 2009 esplose tra Messico ed Usa in zone ad alta densità). Questi mega-cluster, non sono spenti del tutto, hanno contribuito a rimettere in modo l’epidemia.
Paesi come la Nuova Zelanda (ed in parte l’Australia) hanno optato per una completa chiusura (quasi due mesi di blocco) ed aiutati dalla conformazione del territorio (l’isola) e da una popolazione limitata (5 milioni) hanno abbattuto del tutto i casi interni. Oltre a queste misure i confini risultano blindati.
Ci sono poi esempi come la Svezia (10 milioni di abitanti), paese in cui il blocco è stato indotto (non imposto) e le interazioni sono calate dell’80%. Il 70% degli svedesi non è di fatto uscito di casa e non si è recato nemmeno a trovare i propri cari over 70 negli ultimi sei mesi, di fatto abbattendo le già relative interazioni in un paese dalla densità bassa.
Taiwan, Hong Kong e Giappone hanno invece scelto d’attivare un modello di tracciamento tecnologico (app e big data) che di fatto ha annullato i cluster in partenza isolando i casi, oltre a misure localizzate di lockdown (a Tokyo fu limitata la “vita serale”). Il problema non è quindi solo italiano, ma mondiale.
Italia: una strategia non ottimale
Il nostro paese è partito con il lockdown “duro” ispirandosi al modello cinese (Pechino però ha i confini blindati ed opera screening di massa). Tale approccio è stato utile per uscire dalla fase più complessa, quella appunto di marzo ed ha lasciato una dote da gestire in estate, periodo che è stato superato senza grosse difficoltà e controllando tutti i focolai. I modelli di previsione però si sono rivelati inadatti, visto che a marzo furono ritagliati su dati – quelli cinesi – assai diversi dalla realtà oggettiva.
Durante il periodo estivo però l’approccio mediante “big data” (l’app Immuni, al netto dei problemi di privacy, non è stata sviluppata: sarebbero bastate 15-20 milioni di persone per renderla efficace) non è di fatto stato utilizzato per mappare e prevenire la pandemia da Covid-19, anche se tutti i modelli avevano previsto una seconda ondata (più tenue) che ha iniziato a manifestarsi in Francia, Spagna e Gran Bretagna. L’Italia a settembre usciva dalla stagione estiva virtuosa a livello di contagi; non ha però saputo dare il colpo decisivo, perdendosi nelle solite polemiche. Il tracciamento tramite tecnologia è stato abbandonato e sono montate non poche polemiche riguardanti tamponi e mascherine, supportati dalla comunità scientifica che illustrava dati molto bassi. Tali dati però non riflettevano la realtà dell’infezione, ma erano frutto di una politica di intervento differente, dipendente dai dati di diffusione non omogenei registrati dalle Regioni.
Questo il nodo che ha fatto saltare la prima T, quella del tracciamento. Il continuo braccio di ferro tra Regioni e Governo ha fatto poi saltare la seconda T, quella dei test, di fatto portando i contagi a quintuplicare nella seconda decade di ottobre.
Infatti nella capacità di testing & tracing le performance regionali sono molto variabili: a fronte di una media nazionale di 1.045 casi testati per 100mila abitanti, il numero varia dai 561 della Provincia Autonoma di Trento ai 1.832 del Lazio. Il problema nasce dal rapporto positivi/casi testati, che è passato dal 7% al 10,9%, fotografando la crisi del sistema di testing & tracing per arginare la diffusione dei contagi. In Valle d’Aosta oltre un caso testato su 3 è positivo e in Liguria quasi 1 su 4: significa che la prima barriera è saltata. Troppo pochi tamponi, non omogenei da Regione a Regione, e fatti senza strategia, ci hanno indotto a credere che l’epidemia fosse in estinzione.
A causa di ciò molti modelli vanno ricostruiti e l’andamento della pressione sanitaria (l’unica che ora ci interessa) la potete intuire da questo grafico Gimbe che indica i ricoveri. I dati, ad oggi, sarebbe il caso di comunicarli ogni 5 o 7 giorni. Una scadenza settimanale avrebbe più senso e porterebbe ad un quadro più vicino alla realtà.
Perché i modelli matematici del governo non hanno funzionato?
Lo ha spiegato molto chiaramente il professor Carlo Signorelli. All’origine del fallimento delle stime ci sarebbe quindi il problema della mancanza di dati oggettivi su cui basarle. Lo ha poi confermato l’epidemiologo Donato Greco, oggi consulente dell’Oms, che a questo elemento aggiunge il fatto che “i modelli devono avere memoria storica” e non valgono “da soli, senza un’intelligence intorno”.
Una vera e propria sentenza per modelli classici applicati a marzo e naufragati tra marzo ed aprile, visto che i casi reali non si conoscevano.
Il modello T&T sarebbe stato utile dopo l’estate perché ci avrebbe dato una situazione più vicina alla realtà. È stato però osteggiato ed applicato non sempre al 100%. Taiwan, per esempio, ha voluto tracciare gli asintomatici (secondo l’Iss circa il 50%) che al 90% rimanevano fuori dal sistema di controllo contribuendo ad alimentare cluster. Questo dato serve anche a capire quanto l’epidemia impatti sul reale.
Il modello matematico, senza intelligence intorno, non serve a nulla o quasi perché non porta a previsioni corrette. Oltre alla descrizione serve l’analisi. Applicare modelli standard, ad esempio, ai protocolli di apertura delle attività senza un vero studio rischia di portare a misure stringenti dove non serve e blande dove invece servirebbero più maglie strette.
Alla piovra Covid-19 abbiamo reciso i tentacoli ma non il corpo; per tutta risposta, il corpo in quest’ultimo periodo ha ripreso a generale tentacoli che hanno destabilizzato il nostro sistema di tracciamento. Esso andrebbe ripristinato al più presto per poter convivere con il virus senza chiudere attività o territori. Come? Con un T&T strategico: non serve a nulla fare il tampone a chi è entrato in contatto con un positivo dieci giorni dopo…