Siamo ogni giorno investiti da una marea di dati relativi alla diffusione della pandemia e la frase “la Lombardia è la regione più colpita…” rappresenta ormai un abituale ritornello sui mass media. Ma che cosa vuol dire “più colpita”, su quale parametro ci si basa per sottolineare ad ogni piè sospinto che la Lombardia è quella più coinvolta nella pandemia, cioè dove il contagio più dilaga?
Sostanzialmente ci si riferisce ad un numero assoluto, cioè il numero dei positivi che vengono riportati nel bollettino quotidiano, ma ci sono almeno due osservazioni da fare, con una premessa. La premessa: il numero contiene “positivi” diversi, mentre si dovrebbe almeno distinguere tra numero di veri “casi” (cioè malati), numero di soggetti testati perché “contatti” o ancora sottoposti al tampone per controllo a fine quarantena.
E adesso le due osservazioni. La prima: ci si dovrebbe stupire che nella descrizione di quelli che si considerano dati “oggettivi” non si tenga mai conto delle dimensioni della popolazione cui il numero stesso si riferisce. Le regioni italiane sono infatti molto diverse da questo punto di vista e riferire solo dei numeri assoluti produce un quadro (una specie di classifica) molto distorta. Infatti, se rapportiamo il numero dei “contagiati” (utilizzando i numeri riportati martedì 10 novembre) al numero degli abitanti, il quadro cambia decisamente: per la Lombardia il tasso risulta essere 47,3/100.000, ma è superato da quello di tre regioni: Piemonte (66,2), Toscana (60,3) e Campania (53,9); è poi praticamente sovrapponibile al dato dell’Abruzzo (47,9), mentre di poco inferiore risulta il tasso per il Veneto e l’Emilia-Romagna (45,3 per entrambe).
La seconda questione, non meno importante, è quella dei criteri che stanno all’origine dell’esecuzione dell’analisi (il famoso “tampone”): sono criteri uniformi in tutte le Regioni? La probabilità di un soggetto infetto di essere identificato è sovrapponibile in tutte le aree geografiche e ha una sufficiente stabilità nel tempo? Sul primo aspetto (le possibili diversità geografiche) potrebbe infatti succedere che il ricorso alle analisi sia influenzata anche dall’offerta presente sul territorio (almeno in Lombardia ci sono anche molte iniziative “private” che offrono – soprattutto all’ansia dei genitori – la possibilità di fare test antigenici rapidi che potrebbero “catturare” positivi che difficilmente sarebbero stati riconosciuti altrove o solo attraverso i canali “ufficiali”); anche rispetto al tempo i criteri per accedere alla ricerca dei positivi per motivi non strettamente diagnostici (in particolare tra i “contatti” dei casi) non appare sufficientemente stabile.
Con queste osservazioni non voglio certo negare la gravità della situazione in Lombardia, ma introdurre qualche elemento di maggiore oggettività. D’altronde gli epidemiologi sanno bene che l’utilizzo di dati “correnti” – come quelli di cui stiamo parlando – non è esente da importanti criticità, ma si dovrebbe davvero essere più prudenti nelle interpretazioni e nella comunicazione all’opinione pubblica.
Le criticità comunque non riguardano solo il parametro relativo al numero dei positivi e mi permetto sottolinearne almeno un’altra, più generale e già evidenziata dal contributo di Paolo Berta qualche giorno fa sul Sussidiario. L’analisi e l’interpretazione dei dati raccolti da realtà territoriali, così diverse per dimensione come le regioni italiane, non è assolutamente adeguata per descrivere l’evento pandemico, le caratteristiche della diffusione del virus eccetera. In termini di popolazione si passa dai 125.000 abitanti della Val d’Aosta agli oltre 10 milioni della Lombardia (17% della popolazione italiana, superiore a quella di molti paesi europei); al secondo e terzo posto si trovano, con circa 5.800.000 abitanti ciascuna, il Lazio e la Campania.
Sarebbe assolutamente necessario fare un’analisi più granulare (per esempio, per provincia) per tutti i parametri così da creare le basi perché a livello politico si possano assumere decisioni più adeguate e coerenti rispetto alla reale situazione (non è forse un po’ paradossale che con il primo lockdown, quando le differenze tra le aree erano molto più grandi di oggi, si è chiusa completamente l’Italia, mentre oggi con differenze molto meno eclatanti si sono divise zone rosse, arancioni e gialle, poi rapidamente riclassificate nel giro di pochi giorni?). La situazione è oggettivamente complessa, ma la confusione nella comunicazione e la scarsa trasparenza dei famosi 21 criteri che governano l’algoritmo certamente non aiutano ad attraversare questa burrasca.
Infine, mi permetto concludere queste brevi note con una domanda: quanto le criticità nella raccolta, analisi e interpretazione dei dati e poi nel loro utilizzo dipende dalla debolezza di una classe dirigente formata nei decenni passati con poca meritocrazia (i meritevoli trasferiti all’estero…) e con poca attenzione per certe discipline come l’epidemiologia (non ci si improvvisa quando scoppia un’epidemia…)?