Secondo gli ultimi dati pubblicati dall’Istat, a luglio l’inflazione sale all’1,9%, in aumento rispetto all’1,3% del mese precedente. La crescita dei prezzi rimane sostenuta dai beni energetici (+18,6% rispetto al +14,1% di giugno), mentre la componente di fondo – al netto di energia e alimentari freschi – segna un più limitato +0,6%, in salita rispetto al +0,3% di giugno. Su tali andamenti pesa il confronto con i prezzi in discesa nell’estate del 2020 a seguito della pandemia: il livello dei prezzi di luglio 2021, infatti, è dell’1,5% superiore a quello del luglio 2019. Le stime preliminari di Eurostat indicano in Eurozona un’inflazione del 2,2%, in salita rispetto all’1,9% di giugno. Negli Stati Uniti i dati pubblicati mercoledì scorso indicano i prezzi in aumento del 5,4%, confermando il dato di giugno: un’inflazione statunitense così alta non si registrava dall’estate del 2008. 



Tornando in Italia, in chiave territoriale si registrano tassi di inflazione superiori al due per cento in Trentino Alto Adige con +2,6%, Puglia e Basilicata con +2,3%, Liguria e Calabria con +2,2%, Sicilia, Friuli-Venezia Giulia ed Emilia-Romagna con +2,1%. I tassi di crescita dei prezzi oscillano attorno alla media in Valle d’Aosta, Molise, Campania (+2%), Veneto, Umbria, Abruzzo (+1,9%), Toscana, Sardegna e Piemonte (+1,8%), mentre tassi relativamente più contenuti si osservano nelle Marche (+1,7%), in Lombardia (+1,6%) e nel Lazio (+1,5%). 



Sui prezzi al consumo agisce, a monte della filiera produttiva, la pressione dei prezzi delle materie prime: a luglio i prezzi in euro rilevati dalla Banca centrale europea per le materie prime non energetiche segnano una crescita del 36,4% su base annua, per quelle non alimentari i prezzi sono in salita del 45,5%, seppur in decelerazione rispetto al 52,1% di giugno. L’analisi dei dati sui prezzi all’importazione pubblicati questa settimana dall’Istat, evidenzia a giugno 2021 un aumento medio del 9,5%, con un +50% per i beni energetici e un +11,3% per i beni intermedi, tra cui spicca il +23,2% della metallurgia e il +15,9% dei prodotti chimici. 



Le attese sui prezzi di vendita delle imprese manifatturiere toccano livelli che non si registravano dal 1995. La pressione sui costi degli input produttivi è diffusa settorialmente, con maggiori accentuazioni per le imprese di legno e mobili, metallurgia e prodotti in metallo, tessile, carta, gomma e materie plastiche, oltre che per quelle delle costruzioni. All’escalation dei prezzi si associa la rarefazione delle materie prime, conseguente alla difficile ricomposizione delle filiere globali dopo le rotture causate dalla pandemia. Una prolungata difficoltà di reperimento delle commodities potrebbe rallentare i programmi di rilancio sostenuti dai finanziamenti europei di Next Generation Eu, riducendo la crescita del Pil.

Le tensioni sui prezzi delle materie prime determineranno ricadute, anche se temporanee, sul tasso di inflazione: secondo le previsioni della Commissione europea dello scorso 7 luglio, l’inflazione salirà nel quarto trimestre del 2021 al massimo dell’1,8% in Italia e al 2,5% nell’Eurozona, superando il target di inflazione dell’autorità europea di politica monetaria. La riduzione delle strozzature di offerta e le debolezze del mercato del lavoro – la dinamica del costo del lavoro rimane contenuta – dovrebbero determinare dal 2022 un raffreddamento dei prezzi. 

Per evitare che un tasso di inflazione superiore al 2% inneschi un cambio di direzione della politica monetaria, il Consiglio direttivo della Bce lo scorso 8 luglio ha approvato la nuova strategia che adotta un obiettivo di inflazione simmetrico del 2% a medio termine. La simmetria implica che scostamenti negativi e positivi da questo obiettivo siano considerati ugualmente inopportuni, anche se viene considerata la possibilità di fasi transitorie di inflazione moderatamente superiore al target. In questa prospettiva saranno valutati il contesto, oltre che l’origine, l’ampiezza e la persistenza della deviazione rispetto al valore limite di crescita dei prezzi. Con l’adozione della nuova strategia viene scongiurato l’innesco automatico di una restrizione monetaria che depotenzierebbe la velocità della ripresa.

Nella valutazione della stabilità dei prezzi, la Bce terrà conto di misure dell’inflazione che comprendono stime iniziali dei costi relativi alle abitazioni occupate dai proprietari. Queste valutazioni sono particolarmente rilevanti considerando che i prezzi delle abitazioni, deboli in Italia dove nel primo trimestre del 2021 salgono dell’1,7%, crescono del 5,8% in Eurozona e addirittura del 9,4% in Germania.

La valutazione di temporaneità dell’inflazione è rilevante: un ritorno a politiche monetarie deflazionistiche, una accelerazione dei tempi del tapering e un probabile rialzo dei tassi determinerebbero un aumento dello spread sui rendimenti del debito sovrano, penalizzando le economie come l’Italia, caratterizzate da un più alto rapporto tra debito pubblico e Pil. In parallelo la riattivazione delle regole europee di bilancio dal 2023 – che in Italia si intreccia con il ciclo elettorale – potrebbe pericolosamente sincronizzare il tono restrittivo della politica monetaria e fiscale, interrompendo la ripresa dopo una recessione che nel 2020 ha determinato il crollo del Pil più pesante, in epoca di pace, dall’Unità d’Italia.

Con la disattivazione dal 2023 della clausola di salvaguardia generale, il Patto di stabilità e crescita andrà riscritto sulla base degli scenari post pandemia, tenendo conto che nel 2022 il debito pubblico dell’Eurozona è previsto al 100,8% del Pil, oltre quaranta punti sopra al livello del 60% del Pil che rappresenta l’attuale target di politica fiscale europea. Oltre all’Italia, che il prossimo anno avrà un debito pari al 156,6% del Pil, valori divergenti dal limite dell’obsoleto Patto di stabilità e crescita si riscontrano anche in altre maggiori economie dell’Eurozona come la Spagna (116,9%) e la Francia (116,4%). Spingere queste tre grandi economie europee in un sentiero di riduzione accentuata del debito – attualmente è previsto un ventesimo all’anno del divario rispetto all’obiettivo del 60% – determinerebbe una spirale recessiva in quasi la metà (45,7%) dell’economia dell’Eurozona. 

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