L’Istat ha pubblicato i dati dell’andamento mensile delle variabili che interessano il mercato del lavoro riferiti a giugno. Se occorrevano altri indizi per prevedere che in autunno ci troveremo davanti a una situazione di crisi del lavoro che potrà determinare anche tensioni sociali crescenti, la fotografia che i dati di giugno ci offrono è più che un indizio, è già quasi una prova.
L’andamento mensile ci conferma quanto già si è prefigurato con i dati di maggio. Durante il periodo di blocco delle attività produttive anche le persone si sono “allontanate” dal lavoro. Per questo avevamo un calo degli occupati, un calo anche dei disoccupati e crescevano le persone inattive in età lavorativa.
Già con maggio si era avviato un movimento inverso e si è accentuato col mese di giugno. La crisi produttiva non è ancora stata riassorbita. Nel mese l’occupazione complessiva scende ancora (-0,2%, ossia 46 mila unità). Anche il tasso di occupazione ha ancora il segno meno (-0,1%) e si attesta al 57,5%.
Cresce però del 7,3% in un mese il numero di chi torna a cercare lavoro (+149 mila unità per due terzi uomini) e il tasso di disoccupazione risale al 8,8% (+0,6% nel mese). I giovani tornano a trainarlo con una crescita nel mese di quasi due punti percentuali arrivando a un tasso di disoccupazione del 27,6%. Il saldo di questo andamento è dato dal calo degli inattivi, che vede però scendere solo la componente maschile, mentre aumentano le donne.
I dati mensili di giugno sono però da vedere nel confronto con la situazione 12 mesi prima. È qui che possiamo leggere come si stiano accumulando le premesse per una grave crisi del nostro mercato del lavoro. Rispetto al giugno 2019 abbiamo 752.000 posti di lavoro in meno (-3,2%). Di questi 613.000 sono di lavoro dipendente e 140.000 sono posti di lavoro autonomi. Il tasso di occupazione è dell’1,8% inferiore a quello di 12 mesi fa.
Nonostante l’inversione di tendenza degli ultimi due mesi abbiamo ancora un 11,5% in meno di persone che cercano lavoro (circa 290.000). Per quanto riguarda gli inattivi, sono il 6,8% in più dell’anno passato, pari a circa 900.00 persone.
Questo confronto sui dati annuali ci indica che il lockdown ha solo rimarcato una tendenza nella perdita di occasioni occupazionali che era già in atto. Se teniamo conto che in giugno è ancora in piena funzione la normativa blocca licenziamenti con estensione del ricorso alla cassa integrazione siamo davanti a dati di previsione per l’autunno di grave preoccupazione. Valutare la corrispondenza a posti di lavoro delle ore di Cig concesse non è mai facile nel breve periodo. Si sa che fra richiesta e poi utilizzo effettivo da parte delle imprese vi è uno scarto talvolta molto ampio. Si può però fare un veloce calcolo e si può notare che già oggi abbiamo, sommando calo degli occupati e crescita degli inattivi, oltre un milione e mezzo di lavoratori usciti dal mercato del lavoro. Se, anche con un calcolo prudenziale, sommiamo il milione circa di posti di lavoro che non esisterebbero già più ma sono coperti dalla Cig e dal blocco dei licenziamenti, arriviamo a oltre due milioni e mezzo di persone che in autunno chiederanno di trovare un nuovo lavoro.
Le scelte operate nel corso degli ultimi mesi non hanno aiutato a preparare dei servizi al lavoro in grado di affrontare una situazione così grave. Il fallimento totale del reddito di cittadinanza e dei suoi navigator come politica attiva del lavoro è sotto gli occhi di tutti. Le reiterate normative contro i contratti a termine e le rigidità calate anche sulla somministrazione hanno reso rigido un pezzo del mercato del lavoro proprio quando serviva più flessibilità. Insomma, finora il Governo ha lavorato contro il lavoro. Ma oltre a ciò stupisce che nemmeno nessuno ponga con forza, in vista del piano di utilizzo dei fondi europei, la priorità di dotarci di una moderna politica attiva del lavoro.
Nell’emergenza da Covid si è fatto ricorso ancora una volta alla Cig e a tutte le sue deroghe. Si è quindi riscoperto un fatto noto: è una politica passiva, salva il reddito, non assicura il lavoro. In più un numero sempre maggiore di lavoratori non viene coperto da questi ammortizzatori e vi è quindi un numero crescente di persone senza tutele né di reddito, né di ricollocazione. È fondamentale che oggi si definisca una nuova forma di ammortizzatore sociale, unico e universalistico, che assicuri sostegno al reddito e una politica attiva di accompagnamento a una nuova occupazione. I Centri per l’impiego pubblici non basteranno a fare tutto quanto servirà. Come già sperimentato in alcune Regioni, si deve fare creare una rete di operatori pubblici e privati accreditati per dare vita a una politica del lavoro a carattere universale.
Più formazione, più tutele, sostegno pieno a chi crea lavoro e a chi vuole lavorare. Piani straordinari di lavori di pubblica utilità temporanei. C’è solo l’estate per preparare servizi adeguati in vista di un autunno difficile.