Negli ultimi giorni si è fatta strada la possibilità di una riforma del catasto che adegui il valore catastale a quello di mercato. L’ipotesi di una riforma imminente sembra essere rimandata forse complici i prossimi rincari delle bollette e delle spese per riscaldamento. Il tema è politicamente sensibile perché il tasso di proprietà delle case in Italia è il più alto in Europa occidentale e uno dei più alti tra i Paesi sviluppati e perché gli italiani hanno sempre considerato il mattone un investimento valido. Un’idea che negli ultimi mesi si è rivelata vincente dato che il problema del mondo è trovare strumenti per proteggere i risparmi dall’inflazione in uno scenario di distorsione tra salita dei prezzi e rendimenti delle obbligazioni senza precedenti.
Sono note le distorsioni dell’attuale catasto in cui le differenze tra case in centro e in periferia e case nelle grandi città o nei paesini emergono solo in misura limitata. Le ragioni di una “riforma” non sono campate in aria. La questione, però, è che le tasse sulla casa sono un parente stretto della patrimoniale e questo lo capiscono tutti. L’obiettivo della riforma sarebbe quello di estrarre più tasse dal patrimonio immobiliare per ridurre le tasse sul lavoro come da copione e secondo i consigli degli organi internazionali. La prima parte di questa equazione, però, è un aumento delle tasse sul portafoglio immobiliare, mentre la seconda è successiva e più incerta.
Qualcuno si azzarda a condire la proposta vendendoci l’idea che si tasserebbero le case dei ricchi e quelle di lusso. Ora, il concetto di ricco o di lusso è già relativo e scivoloso, ma soprattutto per fare i “volumi” bisognerebbe passare al setaccio il grosso del mercato e quindi del ceto medio. Tralasciamo, anche se c’è, la variabile geografica perché i prezzi delle case in Italia sono molto diversi.
Il tema è politico perché ci sono case che non vedono una ristrutturazione da trent’anni e che sono inaffittabili o invendibili, case vuote e case occupate, “single” che vivono in 200 metri quadrati e famiglie numerose in 100, case in paesi disabitati o in periferie “malfamate” e così via. Allineare le tasse al “valore di mercato” ha un’ovvia conclusione per milioni di cittadini soprattutto dopo mesi di mercato immobiliare effervescente a cui il ceto medio ha partecipato solo minimamente. Gli investitori istituzionali si sono lanciati, dall’inizio della crisi, sul mercato residenziale. Questo si è visto in tutte le principali città americane ed europee e anche in Italia. La riforma del catasto per queste categorie difficilmente avrebbe lo stesso impatto che avrà sulle famiglie.
Nei fatti si tratta di un’occasione per fare politiche redistributive con i soldi che sarebbero gestiti dallo Stato. È una riforma che difficilmente saprebbe distinguere tra il cameriere che ha perso tutto negli ultimi diciotto mesi e chi ha preso lo stipendio puntuale ogni 27 del mese magari con uno smart working “generoso”.
Allineare il catasto ai “valori di mercato” è già una tosatura del ceto medio, forse presentato come “i ricchi”. C’è sempre qualcuno più ricco di qualcun altro o più povero; è solo una questione, nella grandissima maggioranza dei casi, di punti di vista. E quindi è completamente “politica”. Il ceto medio da ottobre dovrà ingegnarsi per pagare le bollette e i rincari della pasta e della carne e così via. L’ultima cosa di cui l’economia ha bisogno è un aumento delle tasse fatto per ragioni “sociali”. A questo punto nessuno può seriamente pensare di risolvere il problema del debito che si è creato negli ultimi due anni e ancora di più dal 2008 e prima con le tasse. Questo vale per l’Italia e per il mondo a parte lodevolissime eccezioni. L’incremento delle tasse in questa fase risponderebbe a pure logiche “geopolitiche” tra perdenti e vincitori, Stati rimasti sovrani e non. Nient’altro che questo.
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