Ismail Haniyeh, uno dei capi politici di Hamas, al Cairo per trattare una tregua, dopo che Israele si è fatta avanti per chiedere la liberazione di altri ostaggi. Un cessate il fuoco che, se dovesse essere concesso, sarebbe ancora temporaneo, ma darebbe almeno un po’ di respiro ai civili palestinesi. A convincere Tel Aviv a riprendere le trattative, spiega Camille Eid, giornalista libanese residente in Italia, collaboratore di Avvenire, è stato lo choc dei tre ostaggi che sono stati uccisi dall’esercito israeliano, che ha sparato su di loro senza riconoscerli a causa di regole di ingaggio che nella sostanza danno ai soldati la possibilità di colpire tutto quello che si muove. Netanyahu, insomma, di fronte a un fatto di questa gravità non si è potuto esimere. Da parte palestinese chi tratta è uno dei leader in esilio di Hamas, segno che forse, al di là dell’obiettivo dichiarato dall’IDF di eliminare i promotori dell’attacco del 7 ottobre, all’organizzazione palestinese in qualche modo viene ancora riconosciuta una legittimità come interlocutore. Che, magari, come era successo con Arafat, potrebbe durare anche successivamente.
Israele che chiede la liberazione di 40 ostaggi, Hamas che tratta dopo un primo diniego: a chi giova di più la tregua in questo momento?
Deve convenire a tutti. Israele dice che il prezzo da pagare per 40 ostaggi questa volta sarà altissimo. Bisogna chiarire cosa vuole dire perché, dopo aver liberato decine di persone in occasione della prima tregua, ne stanno arrestando altre. L’ultima conta parla di oltre 2.200 palestinesi detenuti amministrativamente, seconda la legge che permette l’arresto per 30 giorni senza alcuna accusa. Libereranno questi detenuti o quelli che sono in carcere da anni? Secondo un’agenzia araba, Hamas stavolta avrà il diritto di indicare chi liberare.
Come si è giunti a questa nuova iniziativa?
Fino a poco tempo fa Hamas rifiutava di trattare, sostenendo che prima di liberare gli ostaggi occorreva interrompere l’operazione militare, mentre Israele sembrava convinta a continuare senza fermarsi. Poi il Qatar si è mosso e per due volte il capo del Mossad ha preso contatti per trattare, con la luce verde del suo governo. Netanyahu è sotto torchio, soprattutto dopo il fuoco amico che ha ucciso tre ostaggi, con la circostanza agghiacciante dei rapiti che gridavano in ebraico agitando bandiera bianca, colpiti perché gli ordini erano di sparare contro chiunque si muovesse. Un episodio che ha suscitato una grande rabbia al punto tale da indurre i manifestanti a presidiare il ministero della Difesa. È stata una svolta.
Le tragiche conseguenze del fuoco amico erano prevedibili?
Quando si spara senza criterio si finisce per ammazzare anche chi non è nemico. Secondo fonti israeliane il 20% delle vittime dell’IDF, quindi dei soldati israeliani morti, sarebbe stato causato dal fuoco amico. Stiamo parlando di almeno 25 militari deceduti, uccisi dai loro stessi compagni.
Uno dei protagonisti della trattativa sarebbe Haniyeh, uno dei capi politici di Hamas che aveva trovato rifugio in Qatar. È tra quelli che Israele ha messo nella lista nera tanto da chiedere al Qatar di non ospitarli più. Come può essere lui a tenere i contatti?
Il Qatar aveva ottenuto da Israele che lui e gli altri capi non fossero toccati fino a che restavano a Doha. Non voleva assistere ad attentati israeliani sul suo territorio, come è già successo in passato negli Emirati Arabi, in Malesia e in altri posti ancora.
Sembra che però ora Haniyeh sia andato in Egitto a trattare; questa specie di immunità che aveva ottenuto grazie al Qatar ora vale anche all’estero?
Il fatto che si sia spostato vuol dire che ha avuto delle garanzie, quando si muove una pedina grossa significa che siamo vicini a qualche risultato importante.
Al di là dell’annunciata volontà israeliana di distruggere il nemico, questo vuol dire che Hamas viene riconosciuto come interlocutore politico?
Lo stesso comportamento gli israeliani lo hanno tenuto ai tempi con Arafat e l’OLP, si parlava di loro come terroristi e poi si è scoperto che gli accordi di Oslo sono stati preceduti da mesi di trattative con gli emissari di Arafat. Quello che viene detto al pubblico non è necessariamente quello che avviene nelle camere segrete. Alla fine la pace si fa con i nemici. Comunque ci sono diversi modi di condurre le trattative: in alcuni casi i mediatori parlano con un interlocutore alla volta riferendo poi alla controparte il contenuto dei colloqui. Così sono andate le trattative sull’Afghanistan. L’importare è arrivare a un risultato, senza necessariamente riconoscere l’altra parte come interlocutore.
Alla fine questa tregua, che secondo le anticipazioni dovrebbe durare una settimana, si farà?
Parlano di almeno una settimana in cambio di 40 ostaggi. Cosa significhi almeno per ora non si sa. Poi bisognerà vedere quali sono stavolta le categorie di persone da liberare: donne e bambini non ce ne sono più, a meno che non ci siano ancora delle soldatesse. Hamas ha appena diffuso video di tre anziani che sollecitavano la loro liberazione e anche la Jihad ha pubblicato immagini dello stesso tenore.
Ci sono altre trattative importanti in corso, quelle all’Onu. Quale peso hanno?
Al Consiglio di sicurezza dell’Onu per la quarta volta è stata rinviata la votazione, per arrivare a un compromesso che non comporti il veto degli Usa al cessate il fuoco. L’ultima bozza presentata dagli Emirati Arabi Uniti parlava di cessazione immediata delle operazioni belliche. La parola cessazione non è piaciuta agli americani, stanno trattando per vedere di sostituirla con sospensione. Gli americani sono imbarazzati, non vorrebbero dover mettere un veto a una risoluzione che in fin dei conti chiede di mettere fine a un massacro.
Una sospensione potrebbe coincidere con la tregua per la quale sono in corso le trattative?
Sì, ma con l’aggiunta di adoperarsi per adottare le misure atte a fermare i combattimenti. Potrebbe agevolare le trattative per la liberazione degli ostaggi.
La concessione di una tregua potrebbe rappresentare il primo passo per arrivare a un cessate il fuoco definitivo o in questo momento non ci sono le condizioni?
Sono un po’ scettico sulla fine totale delle operazioni militari. È chiaro che chi viene bombardato da giorni non vede l’ora di tirare un respiro di sollievo e beneficiare della tregua. Magari ci sarà l’opportunità di consolidarla, anche se la situazione politica non dà tutte queste speranze.
Ci sono delle condizioni alle quali gli israeliani potrebbero accettare di finire la guerra?
Per la cessazione totale no. Nel giorno di guerra numero 74 abbiamo visto ancora dei lanci dalla Striscia di Gaza contro i kibbutz e gli insediamenti che sono nell’area: Israele non ha ancora raggiunto il suo obiettivo principale, di smantellare la forza militare di Hamas. Gli israeliani vogliono andare avanti e lo hanno detto agli americani, che invece premono perché si passi a una nuova fase, quella degli attacchi mirati e del consolidamento dell’occupazione, senza operazioni massicce come succede ora. Poi ricordiamoci che c’è un’altra guerra in atto in Cisgiordania perché lì ci sono scontri tutti i giorni con morti e arrestati.
(Paolo Rossetti)
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