L’ipotesi di riforma delle aliquote Irpef, frutto di un’intesa raggiunta tra i partiti che sostengono il Governo, fa certamente felice il presidente del Consiglio, che vede sgomberato il terreno da una mina vagante per l’approvazione della Legge di bilancio 2022, dato che la materia riscontra sensibilità assai diverse nell’ambito del Parlamento. Ma nella sostanza siamo ancora lontani dall’obiettivo di riformare l’impianto del prelievo fiscale delineato nella proposta di legge delega approvata dal Consiglio dei ministri, anche per la parte riservata all’imposta sulle persone fisiche.
Allo stato attuale, l’unica cosa relativamente certa è la diminuzione complessiva della pressione fiscale, pari a mezzo punto sul Pil, per la riduzione del prelievo sui redditi individuali medio bassi destinata ad assorbire 7 degli 8 miliardi messi a disposizione nella proposta di Legge di bilancio 2022. Il miliardo rimanente dovrebbe, nelle intenzioni, essere utilizzato per eliminare l’Irap sulle imprese individuali. Una scelta, per quanto poco più che simbolica, che ha provocato la reazione negativa della Confindustria, che da tempo richiede l’eliminazione sulle imposte che non dipendono dalla redditività effettiva (Irap e Ires) per tutte le imprese.
L’accordo raggiunto, come già anticipato dai mass media, riduce il numero delle aliquote di prelievo da 5 a 4 e le ridisegna riducendo le aliquote dal 27% al 25% per i redditi tra i 15 mila e i 28 mila euro, e dal 38% al 35% per quelli tra i 29 mila e i 50 mila euro. Nel contempo viene eliminato l’attuale scaglione del 41% per i redditi tra i 55 mila e i 75 mila euro unificando l’aliquota di prelievo al 43% per tutti quelli superiori ai 50 mila euro.
La nuova proposta, per quanto criticabile, asseconda l’obiettivo di ridurre il prelievo sui redditi medio bassi, quelli tra i 28 mila e i 55 mila euro, attualmente penalizzati da un balzo di 11 punti dell’aliquota di prelievo, senza avvantaggiare le fasce superiori di reddito. Da una prima simulazione, la nuova modalità di prelievo genera un vantaggio che oscilla tra i 100 euro annuali per i redditi di 20mila euro con una progressione fino a 920 euro per quelli fino a 50 mila, e una sostanziale compensazione tra vantaggi e svantaggi per quelli superiori. Risparmi di imposta che si moltiplicano in relazione al numero dei contribuenti attivi presenti nel nucleo familiare.
Un compromesso che soddisfa i partiti di sinistra, favorevoli a mantenere una forte progressività del prelievo sui redditi più elevati, e la Lega che vede riscontrata la richiesta di mantenere in atto la flat tax per i lavoratori autonomi.
Per esprimere una valutazione finale sul valore, e sulla tenuta, di questo compromesso, bisognerà attendere l’attuazione della parte dell’accordo, tutta da esplicitare, che prevede il riordino delle detrazioni fiscali con il superamento degli 80 euro mensili del bonus Renzi. Una ridestinazione equivalente ad almeno 15 miliardi di risorse, più del doppio di quelle utilizzate per la riduzione delle aliquote, che può modificare radicalmente i costi e vantaggi dell’intera operazione, l’impatto sostanziale della revisione delle aliquote Irpef, e di quello generato sulle famiglie dal superamento delle detrazioni per i figli a carico conseguente all’avvio della riforma dell’Assegno unico che entrerà in vigore a partire dal 1 marzo 2022.
Le organizzazioni sindacali e i Caf prevedono, infatti, che per una quota significativa delle famiglie dei lavoratori dipendenti, poco meno del 20% del totale, la riforma dell’Assegno unico rischia di comportare delle perdite di reddito.
La gran parte dei commenti interpreta la proposta di revisione delle aliquote come un sostegno ai ceti medi, identificati nella fattispecie sulla base delle dichiarazioni ufficiali dei redditi delle persone fisiche.
Le analisi fornite dall’Agenzia delle Entrate sulla struttura dei contribuenti consentono di stimare la fascia privilegiata dalla riduzione delle aliquote, quella tra i 29 mila e i 55mila euro, intorno al 16% dei contribuenti che attualmente versano il 26% delle imposte Irpef. Un intervento destinato ad assottigliare ulteriormente la pattuglia dei contribuenti, quel 20% che dichiara redditi superiori ai 30 mila euro anno e che versa il 67% dell’imposta sulle persone fisiche. Una proposta destinata nei fatti ad aumentare il contributo offerto da quel 3,5% delle persone che dichiarano redditi superiori ai 55mila euro (lordi) e che pagano il 38% dell’Irpef introitata dall’Erario.
Sul versante opposto si concentra la folla del 43% dei contribuenti che non versano nemmeno un euro all’erario, e che saranno beneficiati dell’estensione dell’Assegno unico anche per le famiglie fiscalmente incapienti.
L’immagine che scaturisce da questi numeri è quella di un Paese caratterizzato da una imponente massa di persone povere e di famiglie che faticano ad arrivare a fine mese, che contrasta con i numerosi indicatori sui consumi, sugli stili di vita e dello stesso andamento dei conti correnti bancari della stragrande maggioranza delle famiglie.
Alla luce di tutto ciò definire la proposta come un modello di redistribuzione equa del reddito, come si affannano a dichiarare numerosi politici, appare un poco esagerato. Semmai è l’ennesima conferma che stiamo disegnando delle riforme fiscali, analogamente a quanto avviene per quelle messe in campo per il mercato del lavoro e per contrastare la povertà, sulla base di un Paese immaginario lontano dalla realtà.
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