In Europa il virus corre veloce, anzi accelera sulle ali di nuove varianti più contagiose e “cattive” (ieri il premier inglese Johnson, citando lo studio di alcuni scienziati, ha detto che la quella inglese “potrebbe essere più mortale del 30%”), mentre il treno delle vaccinazioni, salutato alla partenza con grande enfasi e speranza, rallenta e fa i conti con i primi guasti al motore. Davanti a questo quadro che desta preoccupazione, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc) ha sollecitato i paesi a preparare misure più rigorose e a velocizzare le campagne vaccinali perché le nuove forme “incattivite” del coronavirus rischiano di allontanare la luce in fondo al tunnel. “Il messaggio chiave – esorta l’Ecdc – è prepararsi ad un rapido aumento del rigore nelle misure di risposta nelle prossime settimane per salvaguardare la capacità sanitaria”: insomma, più restrizioni, più sequenziamento e più vaccini. Una sollecitazione che vale anche per il nostro paese? Le nuove varianti possono mettere in maggiore difficoltà i nostri ospedali? E che impatto potranno avere sull’efficacia dei vaccini e delle terapie farmacologiche oggi più utilizzate? Lo abbiamo chiesto ad Antonio Clavenna, ricercatore presso il Dipartimento di salute pubblica dell’Istituto Mario Negri.
Perché le nuove varianti del Covid preoccupano così tanto l’Ecdc?
Perché le varianti riescono a prendere più facilmente il posto delle precedenti e danno dei vantaggi per la sopravvivenza del virus, il che vuol dire che spesso sono varianti più facilmente trasmissibili. Si adattano meglio al nostro organismo e prendono il sopravvento.
Potrebbero essere più difficili da tenere sotto controllo?
Esatto, perché potrebbero far evolvere l’epidemia in maniera più veloce rispetto ai mesi precedenti, cambiando repentinamente, e in peggio, il quadro epidemiologico.
Il viceministro Sileri ha però detto che c’è “in Italia minore incidenza delle varianti rispetto al Nord Europa grazie alle misure restrittive adottate”. È così? Le restrizioni possono frenare l’insorgere o l’ingresso di nuove varianti?
È possibile che le misure adottate in Italia possano in qualche modo aver consentito di tenere meglio sotto controllo i contagi e il diffondersi di altre varianti. C’è però bisogno di avere dei dati a supporto per validare questa affermazione: bisognerebbe sapere quante varianti ci sono, quanto e dove sono diffuse per avere un quadro più completo.
Il premier Johnson ha detto che la variante inglese, oltre a essere più contagiosa, “potrebbe essere più mortale del 30%”. Gli ospedali italiani devono prepararsi al peggio?
Osservando quanto sta accadendo nel Regno Unito, si può registrare in breve tempio un sovraccarico delle strutture, con l’arrivo massiccio di pazienti, il che può portare a un aumento dei decessi. Drammatica anche la situazione, a Manaus, in Brasile, dove per la variante brasiliana l’afflusso enorme delle persone negli ospedali ha generato una carenza di bombole di ossigeno, come già successo in Italia nella Bergamasca durante la fase più acuta della prima ondata.
Il messaggio chiave dell’Ecdc è “prepararsi ad un rapido aumento del rigore nelle misure di risposta nelle prossime settimane per salvaguardare la capacità sanitaria”. Servono nuovi lockdown severi?
In questo frangente, pur non essendo ancora la situazione ottimale, l’andamento sembra relativamente stabile e va monitorato. Il problema dei lockdown non consiste tanto nel momento in cui si effettuano le chiusure, bensì quando finiscono: una volta usciti, resta il rischio che la curva riprenda a salire. A mio avviso, il lockdown è una misura estrema, da assumere solo se altre restrizioni meno impattanti e pesanti per la popolazione, non solo dal punto di vista economico ma anche psicologico, non sortiscono effetto. Meglio adottare misure sostenibili che possono essere mantenute nel tempo. Ma è difficile se non si producono dati, concreti, verificati nella quotidianità, sui luoghi e sulle situazioni a maggior rischio di contagio.
L’Ecdc consiglia di fare più sequenziamenti, ma in Italia non siamo particolarmente attivi su questo fronte. Come si può migliorare? È solo una questione di scarsi investimenti per la ricerca?
Credo che i nostri problemi dipendano, da un lato, da scarsa attenzione e scarsi investimenti in questa attività e, dall’altro, da una mancanza di personale dedicato. Il sequenziamento è sicuramente importante, perché, se manca, viene a mancare un adeguato controllo epidemiologico su ciò che sta succedendo, per cui non si è in grado di cogliere tempestivamente i potenziali segnali dell’emergere di una nuova variante, con i potenziali problemi che ne derivano, a partire dalle misure più efficaci da adottare.
Le varianti possono mettere a rischio l’efficacia del vaccino?
Al momento parrebbe di no, almeno per la variante inglese: i vaccini già disponibili e quelli che lo saranno a breve sembrano efficaci, come mostrano i test di laboratorio. E probabilmente lo sono anche per le altre varianti, la brasiliana e la sudafricana, anche se su quest’ultima l’efficacia del vaccino risulterebbe leggermente ridotta.
La campagna vaccinale dovrebbe essere accelerata, così da raggiungere più rapidamente una immunità di gregge tale da impedire o rallentare il diffondersi delle varianti?
Il problema maggiore oggi, e non solo in Italia, è rappresentato dalla disponibilità dei vaccini: non abbiamo un numero di dosi sufficienti così da poter vaccinare in breve tempo una quota importante di popolazione. Nei prossimi mesi continueranno a essere necessarie le misure di sanità pubblica per il contenimento dei contagi.
Non esiste ancora un farmaco ad hoc contro il Covid-19, ma la presenza delle varianti può rendere meno efficaci le terapie finora più utilizzate?
È improbabile. Oggi i farmaci più efficaci non sono gli antivirali, ma quelli a base di cortisone che contrastano la risposta infiammatoria nei pazienti che già presentano un’infezione a livello polmonare. Il cortisone agisce indipendentemente da come è fatto il virus e dalle sue proteine.
Per il vaccino abbiamo assistito nell’ultimo anno a una corsa mondiale, frenetica e copiosamente finanziata, della ricerca e delle case farmaceutiche. Su un possibile farmaco specifico anti-Covid lei nota la stessa intraprendenza e lo stesso impegno?
Anche in questo campo si è registrata una grande mobilitazione, tant’è che si contano più di 2mila studi in corso sulle terapie farmacologiche. Ma non è semplice trovare un farmaco antivirale.
Dove sta la difficoltà?
Al contrario dei batteri, i virus utilizzano spesso delle strutture del nostro organismo per replicarsi. Questo ha fatto sì che in passato farmaci con una certa efficacia antivirale si dimostrassero poi eccessivamente tossici per l’uomo.
Perché?
Bisogna trovare dei meccanismi propri del virus o dei bersagli esclusivamente virali senza andare a danneggiare le cellule. È un equilibrio complicato da trovare. Si è riusciti con alcuni virus, come in alcuni farmaci contro l’Aids, ma ci sono malattie virali, per esempio l’influenza, in cui diversi antivirali hanno dimostrato un’efficacia discutibile o modesta.
Una corsa a ostacoli più complicata di quella verso il vaccino?
Paradossalmente è proprio così.
(Marco Biscella)