Caro direttore,
Il 12 settembre scorso ho comunicato alla mia équipe che il nostro lavoro era terminato. Poi ho informato il mio governo sui risultati della nostra indagine e cioè che avevamo trovato i corpi di solo 187 vittime delle quali, tranne quattro o cinque, tutte erano morte per cause naturali. In principio ci attendevamo di esaminarne almeno 2.000… Ho calcolato che la cifra finale dei morti in Kosovo si aggira attorno alle 2.500 unità al massimo, ben lontano dalle 44.000 che mi avevano preannunciato. Questo ammontare comprende molte morti inspiegabili che non possono essere attribuite con certezza a nessuno in particolare“. Parole di Emilio Perez Pujol, medico legale spagnolo che ha guidato un gruppo di esperti incaricato dall’ICTY per indagare sui massacri commessi da esercito e paramilitari serbi in Kosovo. L’ICTY, per chi non lo sapesse, è il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. Tradotto in soldoni, l’Onu. 



Quelle parole, rilasciate in un’intervista a The Times del 31 ottobre 1999 e riprese anche da El Pais e Le Monde, non sono mai state smentite, né messe in discussione da alcuno. Le prime righe riguardavano la cosiddetta strage di Racak, il casus belli che, debitamente veicolato dai media, scosse le coscienze occidentali e garantì alla Nato l’alibi per scatenare 72 giorni di raid contro la Serbia. Gli stessi di cui Joe Biden si definì fieramente l’ispiratore. Insomma, l’Onu fu costretta a prendere atto che gli esperti inviati in Kosovo, di fatto, certificarono non solo un numero di vittime di dieci volte inferiore a quanto denunciato, ma, soprattutto, che molti cadaveri erano morti per cause naturali. E trasportati lì da qualcuno, ammassandoli, per ottenere l’effetto strage. 



Non vi ricorda qualcosa di molto, molto recente? Questo è il comunicato stampa del ministero degli Esteri russo rispetto alla presunta strage di Bucha. 

Dice già tutto. Non a caso, Mosca è andata oltre: ha immediatamente chiesto una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per presentare ulteriori prove inconfutabili a discolpa dei propri militari. I quali hanno abbandonato quel sobborgo di Kiev il 30 marzo, mentre il giorno seguente il sindaco della cittadina in un video-messaggio annunciava trionfante la liberazione dall’invasore. Senza fare menzione della strage. La quale, a differenza di Racak, non sarebbe avvenuta in un bosco o in una radura nascoste, bensì per le strade del centro urbano, come mostrano le immagini e le foto che stanno facendo il giro del mondo. Come mai si è dovuto attendere il 3 aprile per denunciare il fatto, quindi? Forse perché nel frattempo, stante la ritirata russa, nella medesima città sono arrivati esercito, servizi di sicurezza e media ucraini? 



Poco importa, ciò che davvero conta è il risultato immediato: l’Ue sarebbe pronta a un nuovo pacchetto di sanzioni per rispondere alla strage, questa volta comprendenti il settore energetico russo. Ovvero, gas e petrolio. Strana coincidenza. Perché solo sabato 2 aprile, a margine del Forum Ambrosetti di Cernobbio, il commissario agli Affari economici Ue, Paolo Gentiloni, aveva chiaramente escluso una mossa simile, parlando sì di un nuovo pacchetto allo studio ma finalizzato unicamente a rendere impossibile il by-pass delle sanzioni già applicate. Una balla, di fatto. E lo mostra questo grafico: fino a quando l’Europa importerà gas dalla Russia, infatti, questa potrà vantare un surplus di conto corrente (linea blu scuro) e così accumulare assets stranieri. Sanzionando come stiamo facendo la Banca centrale russa (area rossa), si assiste a un principio di vasi comunicanti che vede gli assets stranieri accumulati fluire verso entità non sanzionate (area azzurra). 

È l’energia che muove tutto. Quindi, se non si sanziona quel comparto, tutto il resto è inutile. E parlare di impegno perché non si possano aggirare le sanzioni appare una palese contraddizione in termini. Poiché si sta garantendo un backdoor funding di quel surplus. Quindi anche della guerra. Insomma, la solita ipocrisia europea. Non a caso, il giorno stesso il portavoce del Cremlino, Dimitry Peskov, disse chiaramente che un dialogo con l’Ue è ancora possibile ma solo dopo che avrà smaltito la sbornia statunitense. 

A quanto pare, qualcuno non ha apprezzato quell’ennesimo prendere tempo dell’Europa rispetto al comparto strategico russo. E casualmente, il giorno successivo salta fuori Bucha. Esattamente come di colpo venne scoperta Racak. E poterono partire i raid, gentilmente ospitati dalla piattaforma di lancio chiamata Italia. Al potere, nemmeno a dirlo, il Pd in una delle sue tante sigle di mutazione storica. L’attuale segretario del quale, senza mostrare alcun dubbio rispetto alla dinamica dell’accaduto e prima ancora che la Russia offrisse la sua versione dei fatti e chiedesse un’assise dell’Onu per illustrarla, pubblicava questo tweet. In inglese. Insomma, invocava immediate sanzioni contro il comparto energetico russo. Ovvero, chiedeva immediatamente che il gas salisse a 350 euro per megawatt/ora e il petrolio a 200 dollari al barile. 

Di quali inconfutabili prove era a conoscenza il segretario del Pd, per spingersi così oltre? La prudenza è passata di moda, in quanto a prerogativa fondamentale di un uomo politico? Notare come un noto atlantista e russofobo come Carlo Calenda stesso, nel rispondere a quel tweet, facesse notare che prima di procedere verso un passo simile sarebbe buona norma trovare un’alternativa di approvvigionamento. Pena, il precipitare definitivo di una situazione economica del Paese che solo il giorno prima il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, aveva definito come caratterizzata da numeri che spaventano e già in fase di recessione tecnica. Ma la strada sembra segnata. Troppo forte, apparentemente, l’ennesima ondata di emotività mediatica per resistere, se il cancelliere tedesco Olaf Scholz rendeva noto come un nuovo pacchetto di sanzioni sia già sul tavolo. O, forse, troppo forte la pressione del Dipartimento di Stato, il quale giustamente richiede all’Europa l’estremo sacrificio, mentre gli Usa nel mese di marzo hanno aumentato del 43% i loro acquisti di petrolio russo. 

Gli americani, infatti, mica sono stupidi. Il lavoro sporco e suicida lo fanno fare agli altri, stante il nulla in cui si sono finora sostanziate le loro sanzioni verso la Russia, se non i ridicoli bandi su vodka, caviale e diamanti. E gli Usa non hanno problemi di gas e petrolio, quantomeno non stringenti come quelli europei. Con il fracking si sono garantiti una mini-indipendenza e ora hanno anche scaricato sul mercato il più altro controvalore di riserve strategiche di WTI di sempre. Ma il fracking necessita di petrolio pesante e solo tre Paesi possono fornirlo: Russia, Iran e Venezuela. Tre Stati canaglia, di fatto. Almeno stando alla retorica di Washington. Chi pagherà il prezzo con la recessione più drammatica e profonda dal secondo dopoguerra sarà l’Europa, gli utili idioti di Zio Sam. 

Se anche di fronte a tutto questo continuiamo a beatificare un agente provocatore come il presidente Zelensky e sventolare bandierine gialloblu, ce lo meritiamo. Ma attenzione, perché i costi sociali potenziali di uno shock energetico con un’inflazione già fuori controllo e una Bce costretta a monitorare senza intervenire saranno davvero pari a quelli di una guerra. 

Ora sì, ora è ufficiale: è arrivato il momento di preoccuparsi davvero. Anzi, meglio avere proprio paura. 

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