Per il terzo giorno consecutivo si è registrato un aumento costante di pazienti in terapia intensiva (+7); tre decessi in Lombardia; nessuna regione a zero contagi. Quasi 1.500 persone contagiate e sintomatiche. Sono cifre che sembrano piccole, ma non lo sono, soprattutto perché potrebbero aumentare se altre persone positive vanno in giro contagiando il prossimo. C’è un ritorno del virus, in vista dell’autunno, come tanti hanno detto? Secondo il professor Paolo Bonfanti, direttore Unità Operativa Complessa di Malattie Infettive, ASST di Monza Ospedale San Gerardo, “in realtà i numeri hanno un significato diverso, è cambiata la politica di ricerca. A marzo mille persone erano malate gravi di Covid in terapia intensiva, perché i tamponi si facevano su chi era sintomatico. I mille di oggi sono coloro che hanno fatto un test di controllo perché tornavano dalle vacanze risultando asintomatici. Allora erano la punta dell’iceberg di un numero enorme di persone con l’infezione che non sapevano di avere il virus, adesso sono mille a cui viene eseguito il test: è cambiata la politica di ricerca”. Ma Bonfanti dà anche una notizia estremamente positiva: come lo Spallanzani di Roma, anche il San Gerardo di Monza ha preparato un vaccino che si comincerà a testare ai primi di dicembre: “Si tratta di un vaccino innovativo, che a differenza degli altri non usa il virus, ma è un vaccino Dna di tipo genetico con una serie di vantaggi”.



Che tipo di vaccino state sviluppando? È diverso da quello dello Spallanzani?

Sì. È una sperimentazione che partirà ai primi di dicembre. È un vaccino diverso, una cosa innovativa, perché è un vaccino Dna di tipo genetico. Ha una serie di vantaggi come vaccino in sé, sia dal punto di vista della produzione sia perché gli altri vaccini utilizzano il virus, e occorrono laboratori che sappiano coltivarlo.



Cosa significa vaccino genetico?

I vaccini di tipo genetico producono materiale genetico anche senza coltivare il virus. Ripeto: è un vaccino di tipo innovativo. A dicembre partiremo con la fase 1, adesso stiamo reclutando i volontari, 80 persone sane. Anche se si parte in ritardo rispetto ad altri vaccini,  è un vaccino davvero innovativo. E credo che ci sarà bisogno di più di un vaccino.

Perché?

Non sappiamo quanto i vaccini saranno del tutto efficaci, se potranno garantire una immunità permanente o sarà invece transitoria oppure se ci vorrà un richiamo con un altro tipo di vaccino. La partita del vaccino non consiste tanto nella corsa a chi arriva prima, ma nel capire cosa funziona e cosa no.



Il Dna dove lo prendete?

È un vaccino prodotto da due aziende farmaceutiche con cui collaboriamo. Trasformano il Rna del virus perché non ha il Dna. Il Rna può essere sintetizzato senza virus con le tecnologie attuali, lo sapevamo da quando i cinesi hanno reso pubbliche le sequenze del virus. A partire dalla sequenza genetica del virus questa azienda lo ha trasformato in Dna. Ha il vantaggio che una volta iniettato nell’uomo le cellule lavorano sul Dna, in questo caso viene prodotto tramite questa sequenza di Dna di origine virale. Si produce quindi una proteina del virus verso cui il sistema immunitario produce gli anticorpi. Il procedimento in questo modo è più veloce.

Eventuali controindicazioni?

La fase 1 serve a valutare la tollerabilità, trattandosi di vaccini che non utilizzano virus che normalmente vengono inattivati, però sono pur sempre virus, pensiamo ai vaccini tradizionali che potevano in alcune persone indurre una malattia. Questo rischio con il nostro vaccino non c’è.

Quando ci siamo sentiti lo scorso marzo eravamo in piena pandemia e ricordo che lei si lamentava della mancanza di posti letto. Come è adesso la situazione? Ci sono ancora ricoverati in terapia intensiva?

La situazione è molto diversa. A marzo avevamo 600 malati ricoverati con il Covid, era stato svuotato tutto l’ospedale e riempito di malati infetti. Adesso abbiamo alcuni malati, ma sono nel reparto malattie infettive per cui l’ospedale sta tornando all’attività normale con tutte le limitazioni del caso. I malati di Covid sono pochi e non sono in terapia intensiva anche perché la Regione Lombardia ha deciso di centralizzare i malati. Chi dovesse aggravarsi viene trasferito nel nostro caso al Policlinico. Comunque siamo attrezzati in caso i numeri dovessero aumentare.

I dati dicono che siamo al terzo giorno consecutivo di aumento di pazienti in terapia intensiva, di morti, di nessuna regione con zero contagi. È il ritorno della pandemia che molti avevano annunciato?

Ritengo che sicuramente l’estate abbia contribuito a una maggiore diffusione del virus. Ci sono stati focolai epidemici ben precisi in località turistiche. Certe norme di comportamento che dovrebbero essere ormai assodate sono state disattese. Va però detto che c’è oggi un cambiamento della politica di rintracciamento.

Ci spieghi.

Questi mille e oltre casi che registriamo in questi giorni, un aumento significativo, risentono di una strategia diversa di screening delle persone.

Cioè?

I mille che avevamo ai primi di marzo erano tutti malati gravi, perché i tamponi si eseguivano su chi era sintomatico; i mille di oggi sono coloro che hanno fatto un test di controllo perché tornavano dalle vacanze e sono asintomatici. Allora erano la punta dell’iceberg di un numero enorme di persone con infezione che non sapevano di avere il virus, adesso sono mille per cui il test viene eseguito a prescindere.

C’è l’incognita della riapertura delle scuole. A Verbania una scuola è stata chiusa perché uno studente è risultato positivo. In più si osserva che l’età dell’infezione è calata, colpisce i giovani. Che ne pensa?

La questione dei giovani è quella che dicevamo prima. La maggior parte dei giovani positivi sono asintomatici. Hanno acquisito la malattia in estate attenuando le misure di contenimento dell’epidemia. Capiterà che, alla riapertura delle scuole, qualcuno di questi sintomatici entri in classe. Bisogna predisporre una sorveglianza tale da identificarli rapidamente, mettendoli in isolamento senza chiudere le scuole. È una sfida. I giovani devono tornare ad avere le attenzioni necessarie, le solite, perché genitori e nonni non si ammalino. Questo diventerebbe pericoloso.

Un anno che ha cambiato le nostre vite: per lei, come operatore sanitario, che cosa ha significato?

Rimane vero quello che ci siamo detti: questa epidemia ha indotto un modo di lavorare diverso portando anche aspetti positivi. Con i colleghi di altre specialità si è imparato a lavorare a stretto contatto. Quando c’erano 600 malati di Covid-19, eravamo in 15 infettivologi. Tutti gli specialisti si sono messi in gioco in questa esperienza, che ancora ci portiamo dietro. Poi rimane il senso di incertezza sulla vita, ma è comune a tutti. Questa è la sfida di questo tempo.

(Paolo Vites)

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