Dopo quella della Canossa a via della Scrofa, la lista dei ministri è la seconda umiliazione ravvicinata per Silvio Berlusconi. Era andato alle trattative sulle nomine con tre obiettivi: due ministeri (Giustizia e Sviluppo economico, cioè le comunicazioni) e un ministro (Licia Ronzulli). Ha fatto cilecca su tutti i versanti. A Forza Italia è andato un solo ministero di prima fascia, cioè gli Esteri per Antonio Tajani, fumo negli occhi per il leader azzurro e la sua plenipotenziaria: proprio l’uomo che le dichiarazioni strampalate del Cav su Putin e Zelensky dovevano far cadere. Per il resto, nel carniere azzurro restano le Riforme per Elisabetta Casellati, la Pubblica amministrazione per Paolo Zangrillo, l’Ambiente per Gilberto Pichetto Fratin e l’Università per Annamaria Bernini.
Cinque ministeri come quelli assegnati alla Lega, ma di peso largamente inferiore. Infatti Matteo Salvini porta a casa le Infrastrutture per sé e l’Economia per Giancarlo Giorgetti, i due dicasteri che gestiscono la gran parte delle risorse del Pnrr; quindi l’Istruzione (con annesso “Merito”) per Giuseppe Valditara, gli Affari regionali per Roberto Calderoli e la Disabilità per Alessandra Locatelli. Quanto al resto, nove poltrone vanno a Fratelli d’Italia e cinque sono i tecnici. Ma anche se formalmente è un tecnico, va considerato in quota Salvini anche il ministro dell’Interno, il prefetto Matteo Piantedosi, che fu capo di gabinetto del leader leghista nel periodo passato al Viminale. Berlusconi è uscito da questa partita con le ossa rotte, e si capisce così la stretta di mano gelida con Giorgia Meloni mostrata dalle telecamere del Quirinale mentre la delegazione del centrodestra attendeva il suo turno per le consultazioni.
Le sorprese (con riserva) sono Francesco Lollobrigida all’Agricoltura e Daniela Santanché al Turismo. Colpisce la debolezza delle scelte in due ministeri chiave, entrambi rappresentativi di settori economici importantissimi per l’immagine – e il Pil – dell’Italia: la produzione alimentare e l’ospitalità. La premier in pectore nei giorni scorsi aveva sondato alcuni tecnici come il presidente di Coldiretti Ettore Prandini: evidentemente ha raccolto soltanto dei no. Nessuno ha voluto prendere il posto del leghista, ormai esperto, Marco Centinaio. Le designazioni appaiono un ripiego, forse una decisione dell’ultima ora. La poltrona è andata al cognato della Meloni, un po’ per togliere il sesto dicastero alla Lega e fingere una pari dignità tra il Carroccio e Forza Italia, un po’ per ragioni di consenso: insediarsi nelle province agricole del Nord.
Molti ministeri hanno cambiato nome sottolineando la riscossa identitaria del primo governo guidato dalla destra in Italia: il Made in Italy, la Sovranità alimentare, il Merito, le Politiche del mare, la Natalità. Proprio quest’ultima appare la scelta più identitaria e quindi più suscettibile di sollevare divisioni: Eugenia Roccella, ex radicale diventata attivista pro life, non sarà incline a compromessi sui temi etici.
Un ultimo rilievo riguarda l’assenza di Noi moderati dalla lista dei ministri. Fino a ieri mattina Maurizio Lupi doveva avere i Rapporti con il Parlamento, ora appannaggio di Luca Ciriani, ex capogruppo al Senato di FdI. Qualcuno sospetta che la “quarta gamba” sia la carta coperta della Meloni da giocare quando qualche alleato farà i capricci. In realtà su Lupi è piombato il veto di Berlusconi dopo le dichiarazioni dell’altro giorno: “Quanto sono d’accordo con le sue (di Silvio, ndr) parole? Da uno a dieci, zero”. Lupi si riferiva a vodka e lambrusco. Viceversa, “mi sono piaciute molto le parole di Giorgia Meloni. Concretezza e serietà”. La premier ha dovuto prendere la gomma e cancellare Lupi dal governo.
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