Gli “impoveriti dal Covid”: così vengono chiamate tutte quelle persone che, come ci ha detto in questa intervista Luciano Gualzetti, direttore della Caritas Ambrosiana, “se prima della pandemia si tenevano a galla, in bilico, grazie al lavoro in nero o con contratti a tempo, con il Covid sono crollati immediatamente al di sotto di questa linea”. Solo a Milano si contano oltre 10mila persone in più rispetto a quelle normalmente sostenute dalla Caritas.
Ma non è solo emergenza cibo: “C’è tutta una serie di problematiche di cui si era già a conoscenza e che la pandemia ha portato alla luce, dall’emergenza abitativa, dove famiglie numerose vivono in pochi metri quadri, il che ha portato allo sfociare di forti tensioni, a quella scolastica, dove abbiamo scoperto che il 50% dei bambini che già prima della pandemia facevano fatica a seguire le lezioni non era in grado di fare didattica a distanza”. Purtroppo, ci ha detto ancora Gualzetti, “vediamo ancora tempi lunghi per uscire da questa situazione e temiamo che con lo sblocco dei licenziamenti il numero delle persone bisognose aumenterà ancora”.
Rispetto a prima della pandemia, avete registrato, e con quale entità, un aumento delle persone in stato di bisogno che si sono rivolte a voi?
Un aumento assai pesante, circa il 130% di persone in più, la metà delle quali fino ad allora erano riuscite a stare a galla con un reddito garantito da un lavoro in nero, da un impiego precario o a chiamata, facendo le badanti. Insomma, quel sottobosco che stava a galla, ma che il lockdown ha trascinato giù.
Persone che non si erano mai rivolte a voi, giusto?
Sì, persone che con il blocco della ristorazione, dei bar, degli eventi, tutto quel settore che accoglieva in modo frammentario turisti, manager che venivano a Milano per le fiere, pendolari, è rimasto fermo. Questo per la città di Milano è stato un colpo durissimo.
Quali categorie secondo lei sono state più penalizzate? È aumentato il divario fra chi ha un posto fisso, come i dipendenti pubblici, e gli autonomi?
I più penalizzati sono coloro che avevano dei contratti a termine o nessun contratto. È emerso un mondo di persone, che esisteva anche prima della pandemia, caratterizzato da una forte diseguaglianza di opportunità economiche, ma anche di tutele e garanzie del lavoro. Hanno cominciato a venire da noi tanti giovani, ma anche persone di 50-60 anni, che integravano il loro reddito con lavoretti in nero. Si sono trovati a fronteggiare maggiori spese, oltre ovviamente alla riduzione del reddito.
Ad esempio?
La chiusura delle scuole ha comportato la chiusura delle mense scolastiche. Questi genitori hanno dovuto comprare computer per i figli e affrontare maggiori spese delle linee telefoniche per la didattica a distanza: un insieme di cause che hanno portato queste persone già in bilico a cadere sotto la linea di galleggiamento. Quando arrivano persone a chiederti non solo il cibo, ma un aiuto per pagare le bollette, per comprare le medicine, per onorare la rata del mutuo, capisci che è bastato un niente per farle cadere in povertà.
La pandemia ha quindi portato allo scoperto un tessuto economico e sociale fragile già esistente e diffuso?
La pandemia ha fatto da acceleratore dei processi in atto. Ha aperto le ferite delle contraddizioni esistenti e ha tolto il coperchio a una realtà invisibile per molti. Il paradosso è che c’è stato un aiuto consistente da parte dello Stato, ma molte categorie non hanno potuto usufruirne, perché risultavano senza lavoro già prima della pandemia.
Senza aiuti dello Stato è rimasta loro solo la Caritas? Che iniziative sono state messe in campo per venire incontro a questo disagio e a questi bisogni?
Come Caritas possiamo contare su tutta la filiera delle parrocchie, che agiscono anche come terminali di ascolto e di aiuto immediato: un movimento spontaneo che ha garantito una continuità di presenza, andando a incontrare queste persone anche nelle loro case. Dentro questa rete si sono attivate altre reti come Milano Aiuta, a cui le parrocchie indicavano le persone rimaste sole, e gruppi che distribuivano cibo e medicine. Abbiamo aperto degli empori, che hanno triplicato le tessere, e abbiamo aperto, a marzo del 2020, il Fondo San Giuseppe, il cui obiettivo è offrire un contributo a fondo perduto a chi ha perso il lavoro, stando così vicino in modo concreto alle situazioni di difficoltà.
Altri interventi?
Abbiamo 130 centri di ascolto a Milano, 390 in tutta la diocesi, che spazia fino a Lecco e Varese. Abbiamo aperto in diocesi 300 centri di doposcuola, che hanno intercettato tanti ragazzi che già facevano fatica prima della pandemia: il 50% non poteva addirittura seguire la didattica a distanza, perché questi ragazzi non avevano un computer o spazi disponibili in casa. Abbiamo procurato loro i computer, stimolandoli a seguire le lezioni. Abbiamo aperto sportelli telefonici contro la violenza sulle donne e gli abusi in famiglia, ricevendo molte chiamate, o per aiutare persone depresse che avevano bisogno di compagnia.
Nelle ultime settimane, ora che siamo alla vigilia delle riaperture, ha notato un calo delle richieste?
No, siamo completamente assorbiti, le richieste continuano ad aumentare e temiamo che queste persone subiranno pesanti conseguenze a lungo. Ora la domanda è: che cosa succederà quando toglieranno il divieto di licenziamento? Molti imprenditori ci hanno detto che senza cassa integrazione dovranno licenziare. A tal proposito abbiamo rilanciato il fondo lavoro, che offre tirocini lavorativi in collaborazione con le aziende ancora aperte. Ma come Caritas Ambrosiana temiamo che a livello quantitativo rimarranno tutti.
(Paolo Vites)
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