Lo chiamano codice Salvini, perché il leader della Lega e vicepresidente del Consiglio lo ha voluto e promosso, ma è il nuovo codice degli appalti.
Nato con l’intento di sveltire le pratiche per l’assegnazione dei lavori, tra pochi mesi sarà operativo, e rappresenta una autentica novità nel settore che da tempo aspettava norme più semplici per evitare lungaggini e perdite di tempo che rischiavano di mettere in pericolo la realizzazione dei lavori stessi. Secondo i detrattori si tratta di una deregulation troppo spinta, tanto che il 98% dei lavori potrebbe essere senza gara. Ecco cosa ne pensa Federica Brancaccio, presidente dell’associazione nazionale dei costruttori edili (Ance).
Presidente, qual è la vostra valutazione complessiva sul nuovo codice degli appalti? Le aziende costruttrici si sentono sufficientemente tutelate dalle nuove procedure?
Senza dubbio, dati i tempi ristretti per la scadenza improrogabile del 31 marzo, è stato fatto un gran lavoro, rimediando a molte criticità della precedente stesura. Come Ance abbiamo avuto un’interlocuzione costante con Governo e Parlamento che ha portato ad una correzione di rotta sul tema dell’illecito professionale, che era una delle note critiche da noi evidenziate sin dall’inizio. Anche se nella versione ultima del testo qualche passo indietro è stato fatto.
Quali altri punti vanno nella direzione da voi auspicata?
Un altro passo in avanti riguarda il tema della revisione dei prezzi, finalmente inserita nel nostro ordinamento mentre finora sembrava un tabù. La misura è sicuramente migliorata rispetto alla versione iniziale, anche se il meccanismo va affinato per farlo funzionare efficacemente. Noi sottolineiamo da tempo, infatti, la necessità di un automatismo, come quello francese, che ogni 2-3 mesi dia un indice che si applichi automaticamente all’appalto, con un fondo che si svuota o si rimpingua a seconda dei momenti. Di positivo c’è anche la divisione in lotti, che va incontro alle esigenze delle piccole e medie imprese, e la possibilità di fatturare sulla base dello stato di avanzamento dei lavori e non necessariamente sul certificato di pagamento. Bene anche la riduzione delle garanzie provvisorie e definitive per gli operatori in possesso della certificazione del sistema di qualità.
Quali sono invece le principali criticità dal vostro punto di vista e quindi le correzioni che potrebbero essere apportate al testo?
Dobbiamo fare di più per la concorrenza. Per gli appalti sottosoglia comunitaria eravamo preoccupati perché era stato introdotto l’obbligo della procedura negoziata senza bando, che ora non è più obbligatoria, e questo è sicuramente un bene perché si può agire con procedura ordinaria, quindi con le gare. Noi in realtà avevamo anche una proposta intermedia: l’utilizzo della procedura negoziata fino a 3 milioni e di quella ordinaria al di sopra di quella soglia. Le maggiori preoccupazioni restano per i settori speciali, cioè i concessionari dei servizi pubblici, che rappresentano una quota di mercato molto rilevante, il 36%, e potrebbero gestire i lavori al 100% in house. Inserire una percentuale di esternalizzazione aiuterebbe concorrenza e trasparenza, che sono poi i principi ispiratori della riforma degli appalti.
Le nuove norme dovrebbero ridurre di molto i tempi di realizzazione. L’obiettivo di sveltire le pratiche, di semplificare ed eliminare il più possibile la burocrazia è stato raggiunto?
Qualche segnale c’è, ma bisogna ancora fare molto per snellire le procedure e abbreviare i tempi: come ripetiamo da anni è nella fase prima della gara che si annidano i principali ritardi, non dopo. Peraltro, i continui cambiamenti delle regole di funzionamento del mercato delle opere pubbliche hanno determinato, negli anni, un vero e proprio caos normativo, con tempi medi di realizzazione delle opere di 4 anni e mezzo e addirittura quasi 16 per i lavori oltre i 100 milioni di euro. Sono tempi abnormi che certo non si conciliano con gli standard europei.
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